Il Parlamento greco è riuscito a completare ieri il varo di un piano molto severo di riordino dei conti del Paese dopo giorni di imponenti proteste. Le immagini degli scontri mercoledì nelle vie di Atene, culla simbolica della democrazia europea, erano state crude e preoccupanti, così come le dichiarazioni di Evangelos Venizelos, il ministro delle Finanze: «Facciamo ciò che ci ordinano e ciò che ci permettono».
Troppo facile dire che ad Atene il fumo dei lacrimogeni si levava dalle ceneri della democrazia, sostituita da un potere estraneo ai greci. Non era democrazia quella che stava bruciando nei giorni passati, ma la sua degenerazione clientelare. Una manipolazione del consenso giunta fino a falsificare i conti dello Stato e di cui finalmente cessa l’impunità. Significativamente le violenze si sono fermate ieri.
Scontri per le strade di Atene erano cominciati fin dal dicembre 2008 quando morì uno studente 15enne e la crisi greca sembrava ancora molto lontana. Col passare del tempo invece le proteste davanti al Parlamento hanno preso la forma di una vigilanza di fronte a un sistema politico che in passato rifiutava un rapporto onesto con gli elettori. I voti di questi giorni e l’insieme delle misure intraprese negli ultimi 20 mesi dal Governo di Atene pongono il rapporto tra il demos e il cratos, tra il popolo e il potere, su nuove basi trasparenti e si spera stabili.
Quella che è in atto potrebbe essere una catarsi della democrazia europea. I contribuenti europei presteranno aiuto a un Paese in difficoltà che nel proprio deliberare ha rappresentato e accettato le loro richieste e condizioni. In modo sostanziale, anche se non formale, tassazione e rappresentanza si sono ricongiunte in Europa a un livello diverso da quello delle democrazie nazionali.
Martedì prossimo ne avremo un nuovo test con la decisione della Corte costituzionale tedesca sul salvataggio della Grecia. La Corte dovrà deliberare sui limiti della democrazia parlamentare tedesca nel disporre di diritti fondamentali degli individui, tra i quali il diritto di proprietà e di tutela del risparmio, che le contestazioni ritengono violate dal salvataggio greco. La Corte dovrà chiarire poi un punto più significativo: se salvare la Grecia abbia significato in realtà salvare la moneta dei tedeschi, come sostiene la cancelliera Merkel. Infine deve decidere se l’autonomia della politica di bilancio può essere subordinata a interessi non nazionali. In altre parole si toccheranno, e forse si supereranno, i confini di quell’unione politica europea che l’integrazione economica sta introducendo – come si vede ad Atene – sebbene di soppiatto.
Sotto i nostri occhi molte cose stanno già cambiando nella politica. Da due anni gli incontri tra i Governi sui temi finanziari si sono quintuplicati rispetto ai primi dieci anni dell’euro. La fedeltà di parte, destra o sinistra, si è rotta di fronte al confronto, oggi più urgente, tra interessi comuni o nazionali. Il partito di opposizione greco, Nea Dimokratia, per esempio è stato isolato dagli altri partiti del gruppo popolare al Parlamento europeo per il comportamento non cooperativo nella soluzione della crisi. Il piano di risanamento di Atene prevede privatizzazioni che hanno l’obiettivo di attrarre ingenti capitali stranieri cui vendere imprese greche. Anche in Italia, nel formulare una manovra di bilancio che corrisponda agli impegni europei, il ministro delle Finanze ha parlato di «fine di un’era». Mercoledì si è affacciata a Bruxelles l’ipotesi di una tassa europea. Le forme della nuova politica si avvicinano al cuore del Governo della globalizzazione: gran parte dei Governi dell’area euro pongono un problema di responsabilità alle banche chiedendo ad esse di compensare gli oneri della crisi subiti dai cittadini.
C’è molta nebbia ancora in questa operazione di disvelamento democratico. Se il discorso pubblico europeo accettasse consapevolmente la perdita di significato dei confini politici nazionali, anche le soluzioni ai problemi sarebbero più semplici e trasparenti. Assorbire interamente l’eccesso di debito di Grecia, Portogallo e Irlanda, sarebbe costato ai Paesi dell’euro un settimo del gravame sui debiti pubblici prodotto dalla crisi bancaria. Quest’ultima però non ha creato alcuna protesta per le strade d’Europa. Alla fine il risultato sarà lo stesso: nel 2013 istituzioni europee, Governi e banche pubbliche dell’area euro avranno sostituito i privati come creditori dei tre Paesi in crisi. Per arrivarci abbiamo trascorso 18 mesi sul filo del rasoio nascondendo la realtà. Allo stesso modo, il Governo di Papandreou ha preso impegni straordinari, ma la retorica greca sulle colpe esterne al Paese, tedesche o americane, ha fatto sì che gli interventi di bilancio fossero meno centrati sulla spesa pubblica – molto inefficiente e in mano ai partiti – e più sull’aumento delle entrate. Anche i processi decisionali europei evitano la luce del confronto pubblico. I vertici dell’Eurogruppo o dell’Ecofin restano privi di verbali e di trasparenza e l’interesse comune viene tutelato soprattutto dalla Banca centrale europea, per definizione autonoma dalla politica. I media, i cui bacini di utenza sono limitati e nazionali, sono tra i più coinvolti in questo gioco di ombre.
Il linguaggio della democrazia europea d’altronde è in gran parte ancora da inventare. Per ora prende forma nel modo più difficile, cioè solo dopo aver verificato il fallimento delle soluzioni nazionali e delle spiegazioni populiste. È un antico problema dell’Europa aver bisogno delle crisi per giustificare il superamento delle prerogative nazionali. Ora l’opportunità è sotto i nostri occhi, anche se non c’è miglior cieco di chi non vuol vedere.
Europa, salva Atene e te stessa
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