Approvare subito la manovra e prendere un impegno solenne per inserire nella Costituzione italiana il vincolo esplicito al pareggio del bilancio pubblico può essere la risposta più rapida ed efficace alla crisi di natura finanziaria che minaccia il Paese e l’intera area euro.
Come avviene con le modifiche costituzionali si tratterebbe di un impegno da prendere in modo bipartisan, cioè con decisione comune di Governo e opposizione. Sarebbe la testimonianza politica più alta dell’impegno del Paese nel suo insieme a ridurre permanentemente il debito pubblico.
Ci sono molte ragioni per credere che l’attacco all’Italia non sia giustificabile economicamente. La più fondata è che sono vent’anni che gli italiani conoscono il problema del debito e sopravvivono a esso. Da vent’anni combattere i disavanzi fiscali è sinonimo di limitare gli abusi della politica e finora ciò ha raccolto il consenso della maggioranza degli elettori, anche se non sempre la maggioranza dei parlamentari. Non sono le “manovre” a far arrabbiare i cittadini italiani, ma lo spreco delle risorse comuni da parte delle caste. La crisi di oggi è l’occasione per dimostrare unità del Paese, sintonia tra elettori ed eletti, all’insegna del bene comune.
I mercati d’altronde possono prendere decisioni vincenti perfino per le ragioni sbagliate. Anche se in Italia non ci fossero ragioni di una crisi debitoria, la paura stessa della crisi può provocarla. Gli investitori in titoli pubblici possono astenersi dal sottoscrivere i titoli e creare una crisi di liquidità, e questa a sua volta può far alzare i tassi d’interesse a tal punto da mettere in dubbio anche la sostenibilità del debito da parte di un’economia che da decenni non sa crescere e quindi non produce da sola il reddito tassabile necessario a finanziare il debito. Intervenire prima che sia troppo tardi è indispensabile. Le dimensioni di una crisi italiana vanno infatti oltre le stesse capacità di resistenza dell’Europa.
Le ragioni per dire che l’Italia non può fallire senza far fallire l’euro sono piuttosto semplici. I fondi messi a disposizione dai Paesi euro per assistere i Paesi in difficoltà sono pari a circa 500 miliardi di euro. Se il Fondo monetario internazionale continuerà ad affiancare gli aiuti dei Paesi dell’euro, il totale delle risorse sarà di 750 miliardi. Si tratta di un volume di prestiti che serve a coprire tre anni di finanziamenti pubblici di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna.
Se l’Italia dovesse chiedere assistenza ai partner, i Paesi restanti dovrebbero recuperare altri 800 miliardi di euro. Il totale delle risorse garantite dai Paesi a tripla A sarebbe tale da mettere gli stessi creditori in difficoltà. Francia e Germania si troverebbero impegnati per oltre il 20% del reddito nazionale. Il debito pubblico francese salirebbe implicitamente ben oltre il 100% del prodotto interno lordo. È molto probabile che in tali circostanze la Francia perderebbe la tripla A e che l’onere di garantire il finanziamento della periferia dell’euro area cadrebbe quasi interamente sulla Germania. Si tratta di uno scenario insostenibile sia finanziariamente sia politicamente. Per questa ragione nessuno può permettersi di far cadere l’Italia.
Consapevoli di questa situazione i governi dell’area euro a fine marzo avevano disegnato una “soluzione complessiva” della crisi su misura del nostro Paese, impostando in particolare un nuovo patto di stabilità che avesse al centro della correzione di bilancio la riduzione del debito pubblico. Il problema greco era finito in seconda fila, fino a quando non si era scoperto che Atene stava mancando gli impegni presi. Da allora cento giorni sono passati in vano discutere dell’ipotesi improbabile di coinvolgere le banche (spesso pubbliche) nel finanziamento futuro del debito greco. La crisi greca è via via peggiorata, le banche tedesche hanno imitato quelle francesi e si sono liberate dei titoli greci rendendo vana l’intera questione sul coinvolgimento dei creditori privati.
La soluzione della crisi infine è scappata dalle dita quando Berlino ha fatto capire che avrebbe volentieri rinviato l’approvazione di un secondo aiuto alla Grecia a settembre. Di fatto da giugno si è riaperta così la possibilità di un default disordinato nell’area euro e si sono create nuove tensioni e paura di contagio. Le voci sugli stress test bancari hanno peggiorato la situazione, le quotazioni delle banche italiane sono inciampate e perfino alcune banche tedesche sono state tagliate fuori dal mercato. Da maggio i prezzi dei Cds sul debito italiano sono raddoppiati e sono diventati sei volte più alti di quelli americani. Se la crisi dovesse allargarsi ancora, non ci sarebbe altra soluzione che ricorrere a forme di indebitamento comune della zona euro e a qualche versione degli eurobond. Si aprirebbe, benché ancora una volta di soppiatto, una pagina nuova della politica europea. Non è detto che misure prive di consenso democratico possano reggere a lungo.
Non c’è dubbio d’altronde che l’intera crisi dell’area euro sia una crisi di natura politica. Un crisi alimentata cioè dall’incapacità di dare risposte politiche comuni tempestive a problemi un tempo circoscritti a piccoli Paesi. L’incapacità è stata aggravata dalla distonia tra i tempi della politica – delle democrazie e del consenso – e quelli fulminei dei mercati. Proprio per queste stesse ragioni, la risposta italiana deve essere sia politica sia rapida. Una modifica della Costituzione, che riferisse esplicitamente il vincolo del pareggio di bilancio al rispetto degli impegni presi nell’ambito della comunità dei Paesi della moneta unica, potrebbe essere la risposta giusta nei tempi più brevi possibili.
La correzione di bilancio proposta dal Governo ne riceverebbe la credibilità mancante e dovuta ad aver trasferito l’onere della correzione alla legislatura futura. Esattamente il contrario di quanto aveva fatto il Governo tedesco nell’ultima manovra. Infine un accordo sulla riforma costituzionale potrebbe aprire la strada a un dialogo non di parte sulle riforme per la crescita dell’economia. L’ultimo rapporto di Prometeia ridimensiona l’effetto concreto delle cosiddette riforme strutturali, su cui si combattono grandi battaglie ideologiche e di interesse, e sottolinea la necessità di una riduzione degli oneri salariali. Sarebbe davvero difficile trovare un’intesa almeno su questo punto?
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