Schiaffo alla leadership del presidente: «Un giudizio politico» Il paracadute della Fed La Federal Reserve mantiene per le banche Usa una sorta di «corsia preferenziale»:l’abbassamento del rating non avrà alcun impatto sulla valutazione dei titoli di Stato americani o di altri titoli garantiti dal governo.
Un governo «meno efficace, meno stabile, meno prevedibile» nei suoi interventi di risanamento della finanza pubblica. Quando il documento di Standard & Poor’ s che toglie al debito americano quel rating AAA che aveva dal 1941 arriva sul suo tavolo alla Casa Bianca, la prima reazione di Barack Obama è di rabbia. Probabilmente era stato informato discretamente fin dal mattino di quello che stava per succedere, ma ora, leggendolo, si accorge che nell’ analisi di S&P’ s l’ analisi politica prevale sulle considerazioni economico-finanziarie. Critiche certamente in gran parte rivolte, anche se senza alcun riferimento esplicito, all’ oltranzismo dei repubblicani che, pressati dai radicali dei Tea Party , hanno messo con le spalle al muro il presidente trasformando un atto tecnico come la modifica del tetto al debito in un incubo. Sono stati soprattutto loro al Congresso a minare quei due fattori nel comportamento del governo – stabilità e prevedibilità – che i mercati considerano essenziali. Magra consolazione per un presidente consapevole fin dal primo minuto che nel mirino ci finirà soprattutto lui. Lui che è diventato presidente con la promessa di superare gli steccati fra i due fronti facendo prevalere una vera politica «bipartisan». E che è ora è accusato in tv dal capo di S&P’ s di non aver agito quando poteva, facendo sue le proposte stilate nel dicembre scorso dalla commissione «bipartisan» antideficit. Lui che adesso andrà indebolito ai vertici internazionali e sentirà il fiato sul collo dei creditori cinesi. Che, infatti, si fanno vivi poco dopo con un comunicato durissimo, insolente fin quasi ai limiti dell’ insulto. Un altro colpo alla leadership appannata di un presidente in difficoltà sul quale stanno per calare come avvoltoi – incuranti delle responsabilità del loro partito nella vicenda – anche i candidati repubblicani alla Casa Bianca. Mitt Romney ci mette poco a sentenziare che «la credibilità finanziaria è l’ ultima vittima dei fallimenti economici di Obama: il “downgrading” è un indicatore del declino del Paese sotto questo presidente». E, mentre la radicale dei Tea Party Michele Bachmann chiede al presidente di licenziare il suo ministro del Tesoro, Tim Geithner (peraltro già in uscita e obbligato da Obama a rimanere), il governatore del Texas, Rick Perry, sceglie un altro terreno per la sua sortita di prossimo candidato alle primarie: partecipando ad Austin a un evento religioso, davanti a una platea di 30 mila fedeli prega a occhi chiusi Dio perché aiuti l’ America a non essere stritolata dalle paure dei mercati e i politici a superare la discordia che li divide sul bilancio. Venerdì sera, mentre decide di andare comunque a trascorrere il weekend a Camp David, evitando esternazioni clamorose, Obama già immagina la piega che prenderà il dibattito. «Per di più – gli spiega al telefono Geithner che poi lo raggiungerà alla Casa Bianca – i conti sono sbagliati: hanno sovrastimato di ben duemila miliardi di dollari il debito pubblico che il governo federale accumulerà nel prossimo decennio». Frenetiche consultazioni e comunicato sospeso. Gli analisti di S&P’ s rifanno tutti i loro conti. Scoprono che, effettivamente, l’ errore c’ è. Riscrivono il comunicato, ma concludono che i problemi, nonostante la correzione, restano gli stessi: l’ analisi di fondo non cambia, gli Usa perdono la terza, preziosissima A del loro «rating». Umiliazione, colpo al prestigio, sono le parole che circolano nello staff presidenziale. C’ è chi cerca di minimizzare («ormai lo davamo per scontato»), mentre altri non possono credere che agli Usa venga dato un voto inferiore al Lichtenstein o alla Danimarca. Barack sale sul «Marine One», l’ elicottero presidenziale, lasciandosi dietro un messaggio radiofonico da trasmettere al sabato che parla solo degli sforzi che intende compiere per rilanciare l’ occupazione, dopo aver ammesso che il dibattito sul debito si è trascinato per troppo tempo. Lascia anche il suo portavoce Jay Carney che, in una dichiarazione scritta messa in rete ieri, ricorda la costante pressione del presidente per ottenere dal Congresso «una sostanziale riduzione della spesa» e auspica che nelle prossime settimane le Camere sappiano operare in modo efficace sulle sfide fiscali, «superando differenze ideologiche e politiche». Intanto al Tesoro, mentre il portavoce di Geithner esprime tutto il suo sconcerto affermando che «un giudizio compromesso da un errore di duemila miliardi di dollari si commenta da sé», i tecnici del ministero e quelli della Federal Reserve tentano febbrilmente di disinnescare le mine sparse nel sistema finanziario. Meccanismi che lunedì, alla riapertura dei mercati, possono provocare reazioni di panico, nuovi crolli o, più semplicemente, un’ impennata del costo dell’ indebitamento del governo federale. Un impulso che, via via, sarebbe destinato a trasferirsi a tutti gli altri governi e alle grandi imprese private i cui titoli di credito sono misurati avendo come «benchmark» (cioè come punto di riferimento) proprio il valore dei titoli del Tesoro Usa. La Fed e le authority che regolano il mercato scendono in campo con un comunicato congiunto nel quale stabiliscono che la «bocciatura» di S&P’ s non deve avere alcun impatto sul modo nel quale le banche e le altre istituzioni finanziarie calcolano la rischiosità dei titoli del Tesoro e dalle altre obbligazioni garantire dallo Stato che hanno in portafoglio. Un tentativo di evitare che le banche, costrette a utilizzare una parte del loro capitale come «collaterale» a garanzia di un investimento in Bot Usa divenuto improvvisamente rischioso, si mettano a guardare altrove. I «Treasuries» mantengono la loro «corsia preferenziale», ma nessuno sa dire se il lavoro di questi artificieri avrà successo: speculazione e psicologia a parte, i mercati moderni sono talmente complessi, talmente pieni di «enclave» esoteriche, da non consentire certezze. Gli Stati Uniti, calcolano alla Casa Bianca, pagano 250 miliardi di dollari l’ anno di interessi sul debito federale. Un incremento marginale dei tassi potrebbe anche non essere una tragedia, ma se si rifletterà, come probabile, sui mutui casa, le carte di credito e il resto, le conseguenze per un’ economia già in stallo saranno pesanti. Conforta l’ analisi di Mark Zandi, capo economista di Moody’ s Analytics: «Nonostante S&P’ s gli investitori hanno già votato coi loro acquisti massicci: i Treasury bonds sono ancora il gold standard». Meno quella del Nobel Joe Stiglitz: «Ci spetta un periodo di “malessere giapponese”».
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