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Il presidente fragile e lo spettro improvviso di un’altra recessione

Standard & Poor’s «boccia» il Tesoro Usa ma i risparmiatori corrono lo stesso a comprare titoli del debito federale. Per il governo americano diventa, così, paradossalmente più facile e più a buon mercato prendere altro denaro a prestito, proprio mentre le Borse crollano in tutto il mondo.
IL DISCORSO – Barack Obama parla all’America per cercare di rassicurare i risparmiatori, ma fa solo impennare le perdite di Wall Street. Misteri dei mercati? No, solo operatori che vedono l’America (e forse anche il resto dell’Occidente) sempre più vicina a una nuova recessione. Senza più avere, come tre anni fa, la rete di sicurezza di un governo pronto a salvare le banche, a immettere liquidità nel sistema, a sostenere l’economia con dosi massicce di spesa pubblica. Una sensazione che il presidente americano finisce involontariamente per accentuare (in «rosso» di 390 punti quando ha iniziato a parlare, l’indice Dow Jones è poi precipitato fino a chiudere a meno 634) pronunciando un discorso che rispolvera la retorica obamiana della rassicurazione («Siamo ancora un Paese da “tripla A”. Abbiamo problemi ma sono risolvibili»), senza, però, offrire alcun elemento di novità circa i passi che il governo intende intraprendere.
GLI INTERVENTI “SPUNTATI” – Il presidente riparla degli interventi — proroga degli sgravi dei contributi a carico dei datori di lavoro e dei sussidi di disoccupazione, revisione della politica tributaria, limature al Medicare, la mutua per gli anziani — che aveva già menzionato nei giorni scorsi. Misure di impatto limitato e, comunque, in buona parte già «impallinate» dai repubblicani. Parole che finiscono per rafforzare l’immagine di un Paese che vive una crisi non solo economica, ma anche di «leadership ». Certo, non è colpa di Obama se l’opposizione repubblicana si è fatta oltranzista e non dipende solo da lui se l’enorme debito pubblico è diventato un condizionamento soffocante per ogni azione del governo. Ma è esattamente questo che viene percepito dai mercati: l’economia americana è ferma e il presidente è impotente. Se il Paese scivolerà, come molti ritengono ormai probabile, in una nuova recessione, la situazione, pur senza i crolli bancari del 2008, potrebbe diventare altrettanto grave e forse addirittura peggiore.
LO SCENARIO – Sfiancati da tre anni di salvataggi delle istituzioni finanziarie e da altri interventi che hanno gonfiato il loro debito sovrano, i governi non hanno più risorse da spendere. E l’economia, che nella debole ripresa Usa degli ultimi 18-24 mesi ha recuperato ben poco del terreno perduto nel crollo del 2008, è, oggi, in condizioni complessivamente più fragili. Tre anni fa, ha scritto il New York Times, «c’era ancora grasso da tagliare, adesso si arriverò subito all’osso». In effetti quando cominciò la recessione, già nel 2007, la disoccupazione era al 5%, poco più della metà di quella attuale. Per mantenere l’occupazione stabile a fronte della crescita della popolazione Usa, il numero dei posti di lavoro avrebbe dovuto crescere del 3%. Oggi, invece, l’America ha sette milioni di posti di lavoro in meno rispetto all’inizio della crisi.
LA CRISI A MAIN STREET – Nel frattempo il reddito delle famiglie è calato del 4%, la produzione industriale del 7. Il valore degli immobili — gran parte della ricchezza accumulata dagli americani, popolo con molti debiti e poco patrimonio — si è ridotto almeno di un quarto e la flessione non si è ancora arrestata. Quella americana rimane un’economia vasta, con alcuni innegabili elementi di robustezza. Per questo, nella tempesta mondiale, i risparmiatori continuano a cercare un rifugio negli Stati Uniti e considerano i titoli del debito pubblico Usa l’approdo meno insicuro: l’America spende troppo, ma, risolte le sue dispute parlamentari sul tetto all’indebitamento, non rischia certo l’insolvenza. Il pericolo di un «default», ha chiarito anche l’ex capo della Fed, Alan Greenspan, è pari a zero, se non altro perché Washington ha il potere di stampare dollari senza alcun limite.
LE PROSPETTIVE – I problemi vengono dalla difficoltà di contenere, nel lungo periodo, l’esplosione dell’indebitamento e, nell’immediato, dall’incapacità del mercato di trasformare i mille miliardi di dollari di ricchezza racchiusi nei forzieri delle imprese in un volano di crescita. Una ricchezza che neanche il governo sembra in grado di rimettere in circolazione con opportune misure. La durezza dell’opposizione repubblicana, l’oltranzismo dei «Tea Party », pronti a tutto pur di liberarsi di Obama, non aiutano certo. Ma c’è anche la fragilità del presidente, il suo arretrare quando il confronto si fa duro. Una situazione che preoccupa sempre più anche i democratici: sugli stessi «media» progressisti cominciano a moltiplicarsi gli articoli nei quali ci si chiede se non sarebbe stato meglio mandare alla Casa Bianca Hillary Clinton e quanto sia saggio votare di nuovo per un presidente i cui atti, al di là dei bei discorsi, sono indistinguibili da quelli di un presidente repubblicano. Un leader che rischia di tenere l’America per altri quattro anni in un pericoloso limbo. Nello stallo politico gli sguardi tornano a rivolgersi verso la Federal Reserve che oggi riunisce il «board » dei governatori. Qualcuno comincia a sperare che una terza fase di massiccia immissione di liquidità a sostegno del sistema economico, fino a ieri pressoché esclusa, torni in agenda alla luce delle nuove difficoltà emerse negli ultimi giorni. Altri sostengono che, oltre a farsi coraggio sul cosiddetto «Quantitative Easing 3» il capo della Banca centrale, Ben Bernanke, dovrà dimostrarsi un vero professionista della stampa delle banconote verdi e non un semplice dilettante, com’è stato finora. Ma c’è anche chi avverte che un mago può tirare fuori lo stesso coniglio dal cilindro solo per un numero limitato di volte.

Fonte: Corriere della Sera del 9 agosto 2011

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