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La carta del patrimonio pubblico

Nei cenacoli mensili della Fondazione La Malfa, luogo di civile confronto e discussione, abbiamo sostenuto da oltre un anno che il vero problema italiano non era il deficit, ma l’abnorme rapporto fra il debito pubblico e il Pil. Se non si fosse fatto per tempo un intervento sul debito pubblico italiano, prima o poi la crisi della Grecia e degli altri Paesi deboli dell’euro si sarebbe trasferita a noi. Aggiungevamo che, a quel punto, saremmo dovuti intervenire in tutta fretta e il costo di una manovra imposta dalle circostanze sarebbe stato elevato anche dal punto di vista sociale.
Questa tesi era rafforzata da una considerazione che abbiamo portato avanti con pari insistenza nella stessa sede. Basandoci sulle eccellenti analisi condotte da R&S di Mediobanca, abbiamo osservato che i salari medi delle imprese italiane esportatrici sono inferiori a quelli tedeschi in misura tale da più che compensare la loro minore produttività; i vantaggi in termini di rendimento lordo del capitale sono però annullati da una tassazione delle imprese italiane decisamente superiore a quella tedesca, con la conseguenza che il rendimento netto dei loro investimenti risulta minore, scoraggiando la loro intrapresa in Italia. Dovendosi dedicare, nell’urgenza di una crisi, alle cure del problema del debito pubblico, la politica non ha spazi per intervenire su questo fronte, così importante per la nostra crescita del reddito e dell’occupazione.
Abbiamo sempre accompagnato questa severa posizione con l’auspicio che fosse la Ue a prendere atto che il problema del debito pubblico è comune alla gran parte dei Paesi membri e a decidere una sistemazione straordinaria degli eccessi di questo debito per ripartire da politiche ortodosse fiscali e monetarie, sulla cui necessità concordiamo. E abbiamo insistito perché l’Italia si attrezzasse per suo conto.
All’inizio dell’estate, i nodi sono venuti al pettine. Dopo aver sostenuto per anni che i conti pubblici italiani erano sotto controllo, il Governo è dovuto intervenire in tutta fretta. Ha proposto una prima manovra per azzerare il deficit di bilancio nel 2014 e subito dopo ha dovuto rincarare la dose decidendo che l’azzeramento dovesse aver luogo entro il 2013. È sotto gli occhi di tutti che qualunque tentativo di tagliare la spesa pubblica si scontra con resistenze enormi, come pure si è raggiunta la coscienza che le conseguenze dei tagli ricadono sulle possibilità di crescita dell’economia italiana.
Il presupposto della manovra proposta è che, intervenendo sul deficit per azzerarlo, si blocca la consistenza del debito pubblico e il suo rapporto con il Pil scende per effetto di una crescita che non si capisce da dove possa venire nel momento attraversato dall’economia interna e da quella globale. In sostanza si agisce per bloccare il numeratore (il debito) e ci si affida alla speranza di un aumento del denominatore (il Pil). Ma non è tutto. L’azzeramento del deficit pubblico fa cessare l’alimentazione del rapporto debito pubblico/Pil se i provvedimenti decisi hanno tenuto conto dei tassi dell’interesse che lo Stato dovrà pagare nell’ipotesi sia di una ragionevole politica dei tassi ufficiali – sulla quale, contrariamente alla Fed, la Bce non si pronuncia con chiarezza, anzi fa credere di volerli innalzare appena possibile – sia del premio al rischio chiesto dal mercato.
Su questo aspetto centrale della manovra poco si conosce. Noi non siamo affatto convinti che il premio al rischio si ridurrà a seguito della manovra che uscirà dal Parlamento. Non sappiamo se il rischio di default – e, quindi, il premio richiesto – sia legato solo alla sua alimentazione e non anche al livello del debito; se a tutt’e due, il problema di quale sia l’entità da azzerare resta quanto meno incognito, se non proprio irrisolto. Non è sufficiente consolarsi ripetendo che bisogna crescere di più perché per raggiungere questo obiettivo, sulla base dei dati di R&S ricordati, occorre alleggerire la pressione fiscale, almeno sulle imprese che investono. Non ci sono i soldi per farlo. Siamo quindi in un circolo vizioso.
La sola strada possibile è aggredire il debito in quanto tale: agire sul numeratore senza passare esclusivamente dalla contrazione del deficit, destinando qualche risorsa fiscale a sostenere gli investimenti e quindi la crescita del Pil. La via maestra è un’operazione straordinaria di cessione del patrimonio pubblico per abbattere il rapporto debito/Pil. Cedere beni per 30 miliardi l’anno per alcuni anni significa fare diminuire, per ciò solo, di due punti percentuali annui questo rapporto, cui si aggiungerebbe l’ulteriore riduzione dovuta alla crescita del Pil nominale nell’ordine plausibile di almeno il 2,5-3,5% l’anno. La cessione dei beni pubblici non è un intervento aggiuntivo: è parte essenziale della manovra per evitare il circolo vizioso che collega deflazione e deficit.
Alcuni studi condotti all’estero indicano nel 60-70% del rapporto debito pubblico/Pil il punto di non ritorno sul sentiero del default, perché la dimensione del rientro – via maggiori entrate o minori spese dell’amministrazione pubblica a tutti i livelli (Stato, Regioni e Comuni) – sarebbe così elevata da rendere inevitabile la deflazione, accrescendo il rischio d’insolvenza. La cessione del patrimonio pubblico, fatta per tempo e bene, potrebbe ancora oggi evitare questo rischio, che consideriamo incombente, come pure ridurrebbe il costo sociale, il quale è più elevato se si segue la sola politica di azzerare il deficit, limitandosi a invocare e a sperare in una maggiore crescita.
Le resistenze alla cessione dei beni pubblici sono elevate e diffuse in tutto l’arco politico. Ma è questa la sola via che una classe dirigente degna di questo nome può oggi intraprendere.

Fonte: Sole 24 Ore del 3 settembre 2011

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