• venerdì , 22 Novembre 2024

La crisi e il nodo banche

Una settimana di tregua in Borsa non ci può far distrarre dal rigore.
Domanda: se nella settimana dei downgrade la Borsa di Milano, trascinata dai titoli bancari, piazza un +9% in tre sedute, e solo poco meno hanno fatto le altre piazze europee, e se gli spread scendono tutti – quello italo-tedesco a 350 punti dai 385 di inizio settimana e quello spagnolo sotto quota 300 – questo vuol dire che il peggio è passato e che la crisi volge al termine? Risposta: può darsi, ma guai anche solo a pensarlo. L’unica cosa sicura è una conferma: le agenzie di rating non sono oracoli, anzi. È pur vero, infatti, che dopo quella di Standard & Poor’s le bocciature per l’Italia di Moody’s e Fitch erano già state messe nel conto dai mercati, perché gli operatori sanno quel che Saccomanni ha ben evidenziato (“agiscono in branco”), ma non erano invece del tutto scontate le cattive pagelle consegnate a molte banche europee. Eppure il “rally d’ottobre” c’è stato, e ha dato un po’ di fiato all’ottimismo. Dunque? Cautela. Sia perché gli esperti dicono che fino a quando l’indice Eurostoxx50 non varcherà la soglia dei 2400 punti (venerdì era a 2270) il rischio di brusche ricadute è alto, sia perché non è ancora davvero certo che i due nodi che rischiano di strozzare l’eurosistema, la debolezza delle banche e la solvibilità dei paesi ad alto debito, si stiano davvero per sciogliere.
Certo, è un dato di fatto che tutti, tedeschi compresi, abbiano preso atto che essendoci nel sistema bancario continentale ben 750 miliardi di titoli di Stato dei paesi considerati a rischio (i piigs, purtroppo con due “i”, Irlanda e Italia), lasciar andare in default la Grecia e abbandonare alle pressioni speculative gli altri, significherebbe il fallimento di molte banche. E che questo sarebbe un prezzo troppo alto da pagare, ben di più di quello che costa aiutare Atene e salvare gli istituti di credito in difficoltà (Dexia, ma non solo). Ma il da farsi è ancora tutto da definire. Rimane da decidere, per esempio, se il fondo Efsf vada giuridicamente trasformato in una banca e quindi messo nella condizione di avere finanziamenti dalla Bce, e se attraverso di esso sia il caso di continuare il salvataggio della Grecia e di intervenire sui titoli pubblici più oggetto di speculazione. Così come rimane da verificare se può esistere quella che Barroso ha definito una “strategia europea comune” per la messa in salvo delle banche, che passa sì attraverso un rafforzamento patrimoniale, ma anche nella possibilità di assicurare loro un flusso di liquidità a tassi ragionevoli (quelli praticati dalla Bce sono troppo distanti dal tasso di riferimento dell’1,5%), e persino in una rivisitazione critica di Basilea3.
Naturalmente, è assai rilevante il fatto che la signora Merkel abbia finalmente capito che se l’Europa vuole evitare una tremenda recessione deve aiutare le banche, rovesciando i propositi che fino a ieri coltivava di chiedere ai banchieri di essere loro a salvare gli Stati. Ora, però, vanno evitati due errori. Primo: non bisogna darle il tempo di ricambiare idea, occorre definire subito il “piano europeo”. Secondo: noi italiani non dobbiamo illuderci che siano gli altri a trarci d’impaccio. Su questo Berlino non ha cambiato idea. Anzi, se stoppa la speculazione e ricapitalizza le banche, a maggior ragione pretenderà che le “cicale”, Italia in primis, diventino “formiche”. Può non piacere, ma non c’è dubbio che a sottovalutare questa pretesa si corre un rischio mortale.

Fonte: Messaggero del 9 ottobre 2011

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