Giorni fa ho incontrato Stefano Micossi, direttore dell’Assonime, un economista da tempo immerso nelle cose europee, che – fra le altre cose – ha ammesso di ricordare con piacere una sua intervista concessa alla Stampa molti anni fa.Sosteneva che fosse ancora buona oggi.Sono andato a riprenderla. 4 aprile 1999. In effetti, a parte i nomi, suona attuale in modo formidabile. Eccola, se avete voglia di un viaggio nel tempo che vi riprota dove siete.
La Commissione europea è «una macchina che può risultare straordinariamente efficace o straordinariamente inefficace», un’istituzione che «può fare moltissimo o fallire completamente». E’ «il motore dell’integrazione europea», eppure «la prima cosa che colpisce quando si arriva a Bruxelles è quanto siano sottili le risorse di fronte alla dimensione dei compiti».
L’analisi di Stefano Micossi è lucida. Ha chiuso da poche settimane la sua esperienza di direttore generale Industria della Commissione Ue e confessa di sentirsi «sollevato». Assicura che l’esperienza di Bruxelles è stata importante, ma fa capire che le incomprensioni degli ultimi mesi hanno lasciato il segno. Cresciuto in Bankitalia, passato alla Confindustria, è tornato a Roma per una vita mezza nuova – come direttore della Assordine – e mezza vecchia – come docente alla Luiss. Ora può raccontare le due facce di Europa che ama e che vede in pericolo.
«Il peccato ordinale della Commissione, spiega Micossi nella prima intervista del dopo Bruxelles, è che i governi nazionali sono entrati in tutti i processi e le strutture, cosi che la funzione pubblica europea «fa moltissimo, ma ogni avanzamento è faticoso».
In effetti l’esecutivo comunitario «doveva nascere sovrannazionale, poi le cose sono cambiate, gli stati hanno permeato ogni meccanismo: la Commissione è diventata una macchina pesante. E le cose sono peggiorate quando le amministrazioni hanno tirato il freno finanziario: si è proceduralizzato tutto, è diventato difficile spendere 5 lire, far nomine, o assumere. I funzionari dicono che impiegano metà del tempo per riempire moduli necessari per svolgere le loro funzioni. I controlli hanno reso più gravi i processi».
E’ aumentata la burocrazia…
«I funzionari sono di qualità elevata, più che nelle amministrazioni nazionali: se non ci fossero, la macchina sarebbe paralizzata. Eppure la complessità dei meccanismi produce un tasso elevato di inefficienza».
Perché?
«Manca una guida unitaria. La Commissione è organizzata per linee verticali e indipendenti, cosa che ha una sua funzionalità. Ma questa viene meno se non esiste il coordinamento orizzontale, come è il caso. Non si scelgono le priorità. E’ la vera debolezza del sistema».
Su queste premesse à caduta la Commissione…
«Gli episodi di cui si parla sono nel complesso trascurabili. Non avrebbero condotto alla dimissione di nessun ministro di nessun Paese membro. Gran parte delle truffe, fra l’altro, era stata denunciata dai servizi stessi di controllo interno. L’eccezione rilevante è il caso del dentista della signora Cresson, un autentico abuso, aggravato da un’arroganza che ha scatenato la reazione dell’opinione pubblica. Nella Commissione non c’è corruzione di massa, anche se come in tutte le amministrazioni esistono comportamenti punibili e puniti. La fine di Santer è il risultato di una sequenza straordinaria di errori di valutazione cominciata con la questione “mucca pazza”».
La Commissione scivola dunque sull’incapacità di assumersi le proprie responsabilità?
«Non c’è nessun dubbio. Il comitato dei saggi non ha criticato la corruzione, ma l’inesistenza del collegio come organo responsabile. Le spiego il mio caso. Diciotto mesi fa ho sollevato per iscritto il problema di un capo di gabinetto che abusava del suo potere. Mi è stato risposto: il commissario (Martin Bangemann, responsabile per l’Industria, ndr) fa quello che vuole; se il direttore generale non è contento, se ne vada. Sono andato dal presidente, ho ottenuto una risposta analoga. Ho allora spiegato con grande serenità il caso al Parlamento europeo. Nessuno ha fiatato. Così sono uscito da questa storia con tutti gli onori, ringraziamenti, pensione, e una stretta di mano dorata che spiega l’incapacità di distinguere le cose. In pratica i commissari uniscono in loro la discrezionalità di giudicare il dentista della Cresson e di decidere sul fatto che la Polonia debba precedere l’Estonia nell’allargamento Ue. In questo modo si perdono il controllo delle linee politiche e di quelle di gestione. La crisi era inevitabile».
Si può correggere tutto questo?
«La cosa essenziale è che la Commissione riprenda autonomia rispetto agli Stati membri, il che vuol dire che il direttore dell’agricoltura non deve essere francese solo per controllare i fondi concessi ai contadini del suo Paese. La seconda cosa è che l’esecutivo riassuma responsabilità, non solo per le scelte di indirizzo, ma anche per la gestione corrente, cosa da cui questo collegio ha semplicemente abdicato. Qui nessuno è innocente. Tutti sapevano e non hanno voluto vedere perché non era il loro “giardinetto”».
Spesso si criticano gli italiani di Bruxelles. E’ d’accordo?
«La qualità della presenza italiana a livello di ambasciatori e di alta amministrazione non da ieri è ottima. L’anello debole sono i parlamentari europei. Ci sono delle punte di grande talento, ma la media è molto bassa. Tra l’altro in un passaggio così difficile come quello della messa sotto accusa della Commissione il ruolo degli italiani è stato nullo».
Eppure i commissari italiani si sono lagnati della disattenzione di Roma nei loro confronti.
«Il guaio è che le funzioni europee a livello di governo non sono coordinate. Questo non è un problema se si discute l’ingresso nell’euro o la politica estera comune: c’è il ministro degli Esteri, quello del Tesoro. Ma quando si comincia a parlare di mercato interno che coinvolge nove ministeri, l’Italia fatica ad esprimere un’unica posizione, perché i diversi dicasteri non sono d’accordo».
Spesso comanda più il direttore generale che il ministro, vero?
«Questo avviene quando la politica non è coinvolta. Il direttore generale non ruba il potere al ministro, è al ministro che non gliene importa niente. Si estranea allora anche il direttore e l’Italia viene rappresentata dal funzionario di turno che, a questo punto, resta esposto alla piccola lobby. Manca insomma la capacità di far discendere dalle grandi scelte le piccole scelte, e dalle scelte le decisioni concrete».
Gli italiani si dicono europeisti. Dalle sue parole sembra che sia più per opportunità che per fede.
«Di fede ne vedo poca. Vedo l’adesione acritica, ce n’è molta. Diciamo che gli italiani sono europeisti, tutte le volte si fa un referendum generico. Di solito vedono Bruxelles come un’istituzione esterna di garanzia che compensa le nostre istituzioni deboli. Dico questo non perché voglio sminuire l’europeismo dogli italiani, ma perché quando si entra nel concreto poi si scopre che l’adesione non è spesso sufficiente a garantire gli atti concreti».
Prodi potrà essere forte. Cambierà qualcosa?
«Sì, se non ci si fanno troppe illusioni. Il meccanismo comunitario si impernia sulle decisioni che gli stati membri prendono nel Consiglio dei ministri. Questo è un punto fermo. Le capitali negli ultimi anni hanno sviluppato una considerevole avversione per l’idea di una Commissione forte. Nel momento della crisi hanno dato un segnale nominando in fretta un presidente autorevole, ma questo non vuol dire che siano più disposti di prima a sciogliere i nodi che ostacolano l’avanzamento del convoglio. Oggi sul tavolo ci sono questioni come la riforma incompiuta dall’Agenda 2000 e i problemi irrisolti dell’allargamento verso i quali ci si avventura a ranghi sparsi».
Dimentica il lavoro?
«Qui l’Europa, con Santer, è finita nella palude delle chiacchiere. Era partita bene con un discorso molto chiaro di riforma strutturale. E alla fine s’è trovata a discutere misure sugli handicappati, che è sempre il modo per stare alla larga dalle divisioni fra gli stati membri».
Come se ne esce?
«Lo ripeto. Serve un’Europa più autorevole che abbia responsabilità verso l’interno e l’esterno, che ritrovi la capacità di indicare ima direzione almeno sulle grandi scelte, ed eviti di controllare i meccanismi della Commissione in chiave nazionale. Deve riequilibrare i voti, i pesi, far meno riferimento ai Paesi e più agli individui, riaffermare i valori politici, federali, originali di una costruzione inevitabile ma difficile Oggi l’Europa è un meccanismo burocratico che avanza in assenza di chiare scelte politiche. Io vedo una forte spinta a continuare, ma il problema di legittimazione dell’intera architettura è molto serio. E va risolto».
“Europa senza priorità”
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