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Il fondo europeo è l’ultima chance

Buona parte della crisi dell’area euro è stata scandita dal braccio di ferro tra la Bce e i governi, che per anni si sono rimpallati vicendevolmente la responsabilità di contrastare i mercati. Alla fine di marzo in particolare il Consiglio Ue propose una «soluzione complessiva» rinviando l’impegno dei governi alla difesa del mercato dei titoli di Stato. La Bce, lasciata sola, reagì a muso duro con lo stop all’acquisto dei titoli. L’approfondirsi della crisi nell’estate – tuttora in corso – è anche conseguenza di quell’irragionevole braccio di ferro.
Mario Draghi ha lanciato ieri, nel suo primo intervento pubblico, un allarme sullo stesso aspetto della risposta politica alla crisi. Dove sono – ha chiesto – le risorse dell’Efsf, il fondo salva-Stati? Da un anno e mezzo i governi non riescono a rendere credibile l’Efsf e da mesi fanno finta di rafforzarlo. Si teme che ci vogliano altri tre mesi per renderlo operativo. Intanto i governi aumentano la pressione sulla Bce perché si assuma l’onere del salvataggio dell’euro attraverso il programma di acquisto di titoli.
Una parte della Bce, più vicina alla Bundesbank, si oppone pubblicamente. Secondo i rumours, per de-politicizzare i propri interventi la Bce avrebbe fissato una soglia settimanale di 20 miliardi. Oltre non andrà. Draghi ieri ha cercato di far capire ai governi il rischio di tirare la corda. La crisi impone di trovare una soluzione definitiva entro venti giorni, in tempo per il prossimo Consiglio Ue. Arrivare a fine anno con i titoli della periferia al prezzo di mercato attuale estenderebbe la crisi di fiducia ai Paesi dell’euro più forti, attraverso le loro banche. Nonostante circolino molte e diverse idee sulla soluzione, l’allarme di Draghi dimostra che non si è vicini a un accordo.
Ci sono varie ragioni per cui la Bce ritiene di non poter agire. La prima è finanziaria: la Bce ha già acquistato molti titoli pubblici dei Paesi che hanno bisogno di sostegno. Ne ha un ammontare almeno doppio – e in crescita – in garanzia dalle banche dei Paesi a rischio. Se le perdite si realizzassero, la Bce dovrebbe essere ricapitalizzata dai governi e perderebbe reputazione e autonomia. La seconda ragione è politica: gli acquisti rappresentano una redistribuzione fiscale tra contribuenti di Paesi diversi, alla quale non corrisponde alcuna decisione democratica. La terza ragione è giuridica: ammettere pubblicamente il ruolo della Bce nel salvataggio di singoli Paesi significa violare il Trattato europeo. Qualsiasi cittadino tedesco potrebbe ottenere una sentenza della Corte costituzionale che a rigor di legge costringerebbe la Germania ad abbandonare l’unione monetaria. Infine non si può chiedere alla Bce di essere prestatore di ultima istanza sulla base di un giudizio politico sul comportamento dei governi: potrebbe infatti una banca centrale lasciar fallire un Paese anche se inadempiente?
Dal lato dei governi c’è tuttavia una ragione fondamentale per non assumersi l’onere dell’acquisto di titoli e invocare il coinvolgimento della Bce: qualsiasi soluzione che si basi sul trasferimento di risorse da uno Stato all’altro, trasferisce tra di essi anche i rischi finanziari. Anziché limitare i rischi di un Paese, li trasforma in un rischio-euro, estendendoli a tutta l’area. È quello a cui stiamo assistendo. La crisi è già troppo avanzata per dire se la Francia è tra i Paesi che salvano o tra quelli che devono essere salvati. La stessa Germania non può sostenere tutti gli altri perché diventerebbe anch’essa un Paese indebitato e a rischio. Dalla crisi in alcuni Paesi siamo passati alla crisi dell’euro.
Entro il vertice Ue del 9 dicembre è necessario costruire un meccanismo che risolva l’impasse. Il più lineare è quello degli eurobond. Attraverso di esso sia le risorse sia le responsabilità farebbero capo ai governi. Il più rapido è l’impegno della Bce come prestatore di ultima istanza. Nessuna di queste soluzioni è accettabile a Berlino. Resta la possibilità di anticipare la trasformazione dell’Efsf in un Fondo monetario europeo in grado di finanziarsi con passività comuni – in pratica eurobond – e porre condizionalità ai Paesi da aiutare. Con una tale istituzione pronta, la Bce potrebbe impegnarsi a garantire un nuovo più solido “ponte” a salvaguardia dell’euro e dei Paesi che dimostrano di reagire con le giuste politiche. Per farlo, mancano dieci giorni al prossimo Ecofin e venti al Consiglio Ue, e quello che fa tic-tac forse non è solo un orologio.

Fonte: Sole 24 Ore del 19 novembre 2011

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