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Sulla crisi dell’euro ognuno faccia la sua parte

È giunto per l’Italia il momento di dare alla crisi europea la dimensione politica che avrebbe dovuto avere fin dal suo vero inizio, nel 2008. L’assenza di un confronto democratico tra i governi e i parlamenti dei paesi dell’euroarea sta infatti pregiudicando la corretta ricognizione delle cause che hanno portato i 17 paesi in una condizione di pericolo. L’intero aggiustamento pesa sulle spalle dell’Italia, mentre l’uscita dalla crisi richiede l’impegno di tutti i paesi.
In assenza del confronto trasparente sulle ragioni della crisi, la storia viene scritta dai paesi, in primo luogo la Germania, che hanno un ruolo di forza relativa. Sono paesi creditori, che hanno accumulato risparmi e dai quali si attende provengano le garanzie finanziarie che aiutino i paesi più deboli a superare la diffidenza dei mercati. La storia della crisi raccontata da questi paesi è quella di un problema che nasce dall’indisciplina fiscale dei paesi della periferia. Nella logica di Berlino, il fatto che l’Italia metta al sicuro i popri conti pubblici è quindi la precondizione per la soluzione dell’emergenza.
La crisi dell’euroarea ha invece una natura complessa. È certamente una crisi fiscale (in Grecia), una crisi di competitività (nei paesi della periferia), una crisi bancaria (in Germania, Francia, Irlanda, Olanda, Spagna), una crisi di credibilità (nazionale ed europea) e infine una crisi di carattere istituzionale nell’insieme dell’euroarea. Purtroppo una descrizione molto parziale dell’origine della debolezza dell’euroarea implica che la soluzione sia anch’essa parziale e insufficiente.
La necessità di risolvere i problemi di finanza pubblica italiani resta inalterata. Perché anche se le cause della crisi non sono fiscali, tutte le soluzioni hanno una natura fiscale, implicano infatti un trasferimento di risorse dai paesi creditori a quelli debitori. È un trasferimento fiscale concedere prestiti a Grecia, Irlanda e Portogallo a tassi molto più bassi di quelli di mercato, così come hanno natura fiscale gli interventi della Bce sui titoli del debito pubblico.
Fino a che i Paesi in squilibrio fiscale non rimettono in ordine i loro conti, gli altri Paesi non possono essere convinti che il loro aiuto sia definitivo e non rappresenti invece solo un episodio di una lunga serie di trasferimenti di reddito: l’inizio di una «Transferunion». Ma, come detto, se sistemare i conti dell’Italia è doveroso, questo deve avvenire nel contesto delle altre condizioni di soluzione della crisi. Il percorso deve essere parallelo: più l’Italia aggiusta i propri conti, più la Bce deve impegnarsi a difendere la stabilità dei mercati finanziari (compresi quelli dei titoli pubblici, centrali per i sistemi bancari europei) e più gli altri Paesi devono procedere nella creazione di un fondo di salvataggio per gli Stati e a forme di Governo comune.
Se questo processo di coordinamento politico europeo non c’è, allora l’aiuto finanziario finirebbe per essere fornito dal Fondo monetario (Fmi), a tassi d’interesse convenienti e a condizioni spesso meno punitive di quelle imposte dalla troika (Ue-Bce-Fmi). Il dilemma si era già posto con la Grecia nel marzo del 2010, quando George Papandreou minacciò di rivolgersi al Fmi viste le esitazioni di Berlino nel prestare aiuto ad Atene. Affidare l’Italia al Fmi sarebbe una sconfitta per l’Europa e un rinvio a future crisi, visto che gran parte delle cause dell’instabilità dell’euroarea non sarebbero affrontate.
L’errore è già stato compiuto nel pilotare la crisi greca, poi avvitatasi in una rincorsa tra austerità e debito crescente. Durante l’ultimo Consiglio Ue dell’8-9 dicembre, i capi di Governo hanno insistito sull’unicità del caso greco. L’idea è tuttora che la Grecia sia l’unico Paese in cui un recupero di competitività attraverso austerità fiscale non sia sufficiente, perché il commercio con l’estero pesa così poco nel Pil greco che non può compensare l’effetto sul Pil della restrizione di bilancio. Per questa ragione è stato necessario ristrutturare il debito greco in mano ai creditori privati.
È vero che la Grecia esporta in rapporto al Pil meno di metà di quello che esporta l’Italia e un quarto della Germania. Tuttavia, in una condizione di recessione, anche un Paese aperto al commercio come l’Italia non può sperare che la domanda estera compensi interamente il calo del Pil dovuto all’austerità fiscale. Il rischio di una spirale debito-deflazione (l’austerità fa calare il Pil e crescere il debito che impone ulteriore austerità fiscale), del tipo descritto da Irving Fisher negli anni Trenta, riguarda dunque non solo la Grecia, ma tutti i paesi dell’area euro chiamati adesso a una stretta fiscale che nel caso dell’Italia è stimabile in 5 punti di Pil dal 2011 al 2014. Per rendere credibile lo sforzo italiano, è necessario che la stretta fiscale sia accompagnata da una riduzione dei tassi d’interesse sul debito.
La grande iniezione di liquidità da parte della Bce consente di ridurre i tassi a 3-12 mesi, ma non garantisce che i tassi su titoli decennali scendano. I dubbi degli investitori sono che tra dieci anni l’euro possa non essere la moneta in cui i debiti vengono ripagati. Perché i tassi scendano è dunque necessario che sia visibile l’impegno istituzionale di tutta l’area dell’euro a rafforzare la moneta comune.
La cornice fiscale (il «Fiscal compact») entro cui si inserisce la manovra italiana richiede per esempio un nuovo trattato intergovernativo a cui si sono impegnati a parole fino a 26 paesi Ue, ma di cui per ora non si vede un percorso certo. I Paesi per esempio devono iscrivere il pareggio di bilancio nella legislazione primaria nazionale, ma ben pochi hanno avviato la procedura. La realizzazione del nuovo Fondo salva stati (ESM) richiede inoltre la revisione del Trattato entro giugno, mentre la dotazione finanziaria del Fondo dovrebbe essere adeguata entro marzo. L’Italia sta facendo la sua parte e dunque è nelle condizioni per chiedere ai paesi partner che facciano la loro nei tempi più brevi.

Fonte: Sole 24 Ore del 2 gennaio 2012

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