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Controllori dei mercati o valvassori dei politici?

I provvedimenti varati dal governo di Mario Monti negli ultimi due mesi hanno realizzato una vera rivoluzione nelle regole per l’accesso al mercato e l’esercizio delle attività economiche, forse non ancora pienamente compresa, ma che nel tempo può produrre effetti poderosi sulla crescita e l’occupazione. Il principio di libertà della direttiva europea dei servizi – che obbliga a giustificare ogni restrizione con rigorosi criteri di interesse pubblico, comunque entro i vincoli di necessità e proporzionalità della restrizione per la realizzazione di quell’interesse – è ora pienamente incorporato nella nostra legislazione.
È stato sottoposto agli stretti vincoli della normativa comunitaria ogni regime amministrativo che richieda la previa autorizzazione per l’esercizio di un’attività economica. Si sono consolidate le funzioni delle autorità di regolamentazione nella sorveglianza su reti e servizi pubblici, incluso il potere di verificare gli standard di prestazione dei servizi. Insomma, siamo già in un nuovo mondo. Ma, c’è un ma. La realizzazione degli obiettivi riposa in maniera cruciale sul buon funzionamento e l’indipendenza della autorità che delle nuove regole dovranno garantire l’applicazione. Ad esempio, l’Autorità Antitrust ha ricevuto nuovi poteri riguardo alla compatibilità di leggi e provvedimenti amministrativi con le regole di concorrenza: essa potrà agire in giudizio contro ogni atto regolamentare e provvedimento delle amministrazioni pubbliche che violi le norme a tutela della concorrenza. Penetranti poteri regolatori saranno assegnati alla nuova autorità dei trasporti, assistiti da forti poteri di sanzione. Occorre però che questi poteri vengano esercitati in un’ottica di tutela indifferenziata del mercato, che nel complesso non si è realizzata.
Grandi aspettative erano state riposte, ad esempio, nello spostamento dalla Banca d’Italia all’Autorità Antitrust delle competenze in materia di concorrenza bancaria, con la legge sul risparmio del 2005; a quasi sette anni di distanza, e nonostante vari provvedimenti amministrativi di intervento su commissioni e strumenti di pagamento, il nostro sistema bancario resta nel complesso più costoso e meno efficiente di quelli dei concorrenti nel mercato interno, indicando il persistere di una segmentazione dei mercati.
Sul mercato assicurativo, la liberalizzazione dei prezzi delle polizze per la responsabilità civile dei conducenti, in regime di assicurazione obbligatoria, si è tradotta in forti aumenti delle tariffe, che né il sistema bonusmalus, né il sistema dei pagamenti diretti da parte della compagnia del danneggiato hanno contribuito a moderare. La Consob ha svolto un’opera meritevole nel miglioramento delle regole di governance societaria, ma in qualche caso significativo nel bilanciamento degli interessi, quelli del mercato e degli azionisti di minoranza sono stati sacrificati. Nei momenti di debolezza dei corsi, essa si è talora proposta come il difensore degli equilibri di controllo delle maggiori società quotate, danneggiando la propria credibilità di arbitro imparziale davanti agli investitori esteri.
Potrei continuare, ma credo che il problema sia chiaro: sorge l’interrogativo se nei fatti le autorità siano state sufficientemente indipendenti rispetto al potere politico e agli interessi costituiti, e se l’insufficiente indipendenza non ne abbia indebolito l’azione di apertura e regolazione proconcorrenziale dei mercati.
La questione centrale, da questo punto di vista, riguarda i meccanismi di nomina dei componenti dei collegi, in particolare dei loro presidenti. Spesso, i collegi delle autorità sono stati visti come luogo di compenso per persone provenienti dalla politica, o vicine alla politica, alle quali assicurare un posto; in qualche caso, la scelta del commissario ha risposto all’obiettivo trasparente di tenere sotto controllo l’azione del collegio, a tutela d’interessi specifici.
Quanto ai presidenti, il requisito era più stringente: essi sono stati figure di garanzia degli equilibri esistenti, o delle modifiche in tali equilibri accettabili per il potere politico. Non a caso, negli ultimi anni spesso ha prevalso la scelta di alti funzionari dello stato, con ottima conoscenza del diritto amministrativo, molto meno delle materia specifica di competenza dell’autorità, pochissimo dei meccanismi di mercato.
Soprattutto, si sono scelte persone cresciute in carriera presso i vertici della politica: dunque, inevitabilmente, abituate ad ascoltare con attenzione le esigenza della politica, poco propense a spingere la propria azione oltre i limiti fissati dalla politica. La quale, a sua volta, è per sua natura più propensa a difendere gli interessi esistenti che quelli dei nuovi entranti nei mercati.
La modifica dei meccanismi di nomina sembra dunque uno snodo cruciale: nessuno di quelli esistenti ha dato buona prova, anche se non tutte le nomine sono state cattive. Se i requisiti essenziali sono la distanza dalla politica e la competenza specifica, il meccanismo migliore è di prevedere che la proposta venga dal governo, vincolato esplicitamente dalla legge al rispetto di criteri di competenza e indipendenza; ma che sia previsto anche un procedimento di conferma parlamentare, come avviene nel sistema americano. La conferma dovrebbe essere il risultato di pubbliche audizioni nelle quali i candidati potrebbero esporre le proprie convinzioni e dimostrare le proprie competenze.
Le pubbliche audizioni potrebbero tenersi presso una delle Camere, oppure davanti alle Commissioni competenti riunite di Camera e Senato. Il voto dovrebbe essere espresso con una maggioranza qualificata, ma senza esagerare (per non dare a nessuno un potere di veto): il sessanta per cento basta a garantire che nessun candidato sia espressione della sola maggioranza. L’esigenza per i candidati di dimostrare la propria competenza renderebbe più difficili anche gli scambi di favori tra deputati e gruppi politici, nei quali purtroppo spesso affondano anche le migliori intenzioni.
Inoltre, la durata dell’incarico dovrebbe essere lunga, sette anni meglio di cinque, per garantire la continuità di indirizzi, e dovrebbe essere escluso non solo ogni rinnovo, come già disposto dal decreto di liberalizzazione, ma ogni possibilità di passare da un’autorità all’altra. Perché, naturalmente, chi spera in un nuovo incarico può diventare meno indipendente.
La stessa Commissione parlamentare dovrebbe essere chiamata a verificare periodicamente l’attività delle autorità, controllando la corrispondenza degli impegni con i risultati. Da questo punto di vista, sarebbe desiderabile sostituire le pubbliche cerimonie di presentazione delle relazioni annuali dei presidenti in approfondite riunioni di lavoro della commissione parlamentare competente, che terminino con una risoluzione di valutazione dell’attività svolta.
La modifica dei meccanismi di nomina dovrebbe essere accompagnata da qualche ritocco nei meccanismi di finanziamento. Occorre, da un lato, assicurare la stabilità delle risorse disponibili, che è un importante presidio dell’indipendenza, preservando i fondi di ciascuna autorità da ogni intervento dell’esecutivo ed evitando i trasferimenti di risorse tra autorità. Va anche eliminata ogni forma di finanziamento legata all’erogazione delle sanzioni, per non creare incentivi perversi.
Allo stesso tempo, come è noto, una quota prevalente dei finanziamenti delle autorità proviene ormai dal mercato; poiché però ciò rischia di allentare la disciplina delle gestioni, come in effetti talora è avvenuto, è opportuno che non solo le finanze delle autorità siamo sottoposte a rigoroso controllo da parte della Corte dei Conti, ma anche non sfuggano ai meccanismi di “spending review” che il governo sta mettendo in atto.

Fonte: Affari & Finanza del 13 febbraio 2012

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