La lettera per lo sviluppo sottoscritta da Mario Monti assieme ad altri undici premier europei, tra i quali quelli di Gran Bretagna, Spagna e Olanda, rappresenta un atto politico impegnativo e, allo stesso tempo, una rottura di continuità rispetto a una tradizione consolidata di scelte condivise da tutti i Paesi. Balza all’occhio la mancanza di Francia e Germania tra i sottoscrittori, per citare solo i più importanti.
Che ci sia in Europa un’esigenza di attivare politiche capaci di agire sullo sviluppo è questione, in principio, riconosciuta da tutti. La cosiddetta strategia di Lisbona, elaborata una decina di anni fa e riproposta di recente dalla Commissione europea, ne rappresenta la ricetta condivisa. Essa, peraltro, fino ad oggi è rimasta largamente sulla carta. Le azioni proposte nella lettera riprendono in larga misura l’impianto di Lisbona. Possono funzionare dove non ha funzionato Lisbona?
Cominciamo dalle azioni proposte per liberalizzare il settore dei servizi. Per intenderne l’importanza basta tener presente che si tratta di un settore che rappresenta quasi l’80% dell’economia nei Paesi avanzati. Non solo. È anche quello in cui è maggiore il ritardo in termini di innovazione e produttività. Non va dimenticato che fu proprio su questo settore che la Commissione provò qualche anno fa a emanare una direttiva fortemente innovativa che, però, arrivò al traguardo largamente annacquata e priva di forza reale. Si tratta di un episodio che la dice lunga sul potere delle lobby, forti non solo in Italia e che certamente sarebbero pronte a ostacolare anche l’azione dei firmatari della lettera.
Passiamo alla liberalizzazione del mercato dell’energia. Le azioni dirette a realizzare una reale, efficiente interconnessione tra le reti elettriche e digitali di ciascun Paese hanno incontrato forti difficoltà nel recente passato. La competenza in materia di politiche comuni per l’energia non è purtroppo tra quelle previste dagli accordi europei. L’assenza di Francia e Germania tra i firmatari della lettera è più che un indizio della volontà di mantenere la propria autonomia in queste materie. Si tratta di un grave ostacolo a significativi passi avanti. Considerevoli sarebbero i vantaggi che deriverebbero ai cittadini europei non solo da una maggiore efficienza delle reti ma anche da una politica di approvvigionamenti comune verso i fornitori di combustibili e gas.
È veramente singolare che in questa materia non ci siano stati in questi anni significative azioni comuni se si pensa che una delle prime istituzioni europee fu la Ceca, la Comunità del carbone e dell’acciaio. Un suggerimento per uscire dall’impasse potrebbe essere che i firmatari della lettera propongano, sulla base di questo precedente, l’istituzione di una Comunità per l’energia e l’ambiente. E un altro è quello di utilizzare al più presto gli «eurobonds» per fare investimenti sulle reti europee.
C’è infine un punto della lettera che rappresenta una novità e un’area di azione importante e praticabile. Si propone un’azione di apertura verso i mercati globali, in particolare quelli che crescono di più. Tra questi non solo la Cina, ma anche l’India e i Paesi del sud-est asiatico. Questi ultimi sono riuniti in un’associazione (Asean) che ha, oltre la dimensione, molti tratti istituzionali in comune con la Comunità economica europea. Sono Paesi cresciuti in questi anni a un ritmo tumultuoso. Aprire verso di loro è un punto importante anche politicamente, perché l’idea della «corazzata» Europa liberalizzata al suo interno ma assai poco aperta verso l’esterno non consente quei legami e quello sviluppo che si potrebbero realizzare con una maggiore apertura verso i Paesi emergenti.
Anche in questo caso ci si deve preoccupare delle lobby che, in generale, non vedono di buon occhio modifiche a situazioni e vantaggi consolidati e diventano particolarmente forti quando si devono attivare i processi necessari ad arrivare a soluzioni da tutti condivise. E proprio per questo che la rottura della tradizione di scelte condivise da tutti espressa dalla lettera dei dodici firmatari può essere un buon inizio e rappresentare non solo un sasso lanciato nello stagno, ma qualcosa di più. Tanto più che tra di essi c’è la Gran Bretagna che, non avendo aderito a un patto fiscale europeo di solo rigore, può avere una ragione di più per insistere sulla crescita. La lettera sta in effetti a significare che le politiche di rigore, pur necessarie, non devono far mai dimenticare che l’Europa è nata con una promessa di maggior benessere e crescenti opportunità per tutti. A questa promessa non bisogna in ogni caso rinunciare soprattutto quando si chiedono sacrifici come quelli richiesti in questi giorni alla Grecia. Non bisogna rinunciarci anche a costo di rendere evidenti, come è stato fatto, differenze importanti tra i punti di vista dei Paesi dell’Unione.
Quel sasso lanciato nello stagno della Ue
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