Pronti? Via. Dopodomani si parte: col primo marzo entrano in vigore le nuove norme di Google sulla privacy. Un sistema semplificato, più trasparente e facile da usare, assicura l’azienda californiana: un solo protocollo al quale aderire in luogo dei 60 diversi sistemi oggi esistenti nel gruppo. Che, però, non piace ai governi europei che avevano chiesto un rinvio. E nemmeno ai procuratori generali di 36 Stati degli Usa, che mettono sotto accusa Google.
Secondo gli attorney general di tutti i principali Stati, dalla California a New York al Texas, rendendo i dati personali degli utenti accessibili su tutte le piattaforme del gruppo, ci sarà assai meno riservatezza, mentre i meccanismi di salvaguarda proposti non offrono ai consumatori una protezione adeguata.
In sostanza da dopodomani, accettando la nuova politica di Google, basterà utilizzare uno dei tanti prodotti del gruppo – attivare il motore di ricerca di Google, consultare la posta su Gmail, usare uno «smartphone» basato sul sistema Android, andare sul social network Google+, su YouTube o su una delle altre piattaforme del gruppo – per far finire i nostri dati in un unico calderone.
Tutto pensato nel rispetto e nell’interesse dell’utente, assicura Google. Alma Whitten, responsabile mondiale per i problemi della privacy dell’azienda di Mountain View spiega che i cambiamenti ora introdotti, sui quali Google ha fatto il più grosso sforzo di comunicazione e preparazione degli utenti della sua storia, «crea un sistema più semplice senza cambiare il nostro approccio alla privacy: non acquisiremo più informazioni in virtù di questi cambiamenti né venderemo le vostre informazioni personali agli inserzionisti pubblicitari. Ci limiteremo a utilizzare le informazioni che già ci fornite in modo da rendere migliore la vostra esperienza di utenti». Combinando i dati collezionati sulle varie piattaforme, infatti, l’intelligenza artificiale di Google farà un balzo avanti, offrendo agli utenti servizi e risposte alle ricerche molto più «profilati» e, quindi, utili. Molto suggestivo, ma la condivisione delle informazioni sulle varie piattaforme alimenterà una diffusione vorticosa di dati personali sui quali il nostro controllo sarà inevitabilmente ridotto. L’azienda offre agli utenti che vogliono sfuggire a questo vortice (o, almeno, cercano di non finire nella sua parte più turbolenta) varie possibilità di opt-out . Ma il sistema è molto complesso e la sua efficacia tutta da verificare. I procuratori americani, ad esempio, ritengono che su questo punto le tutele siano troppo deboli. Chi rifiuta di mettersi completamente nelle mani di Google rischia di essere tagliato fuori o di avere un accesso limitato a strumenti che ormai sono entrati nelle nostre vite, nel modo di comunicare e di lavorare.
Vari esperti sostengono addirittura che un utente di Android che non accetta le nuove regole di Google potrebbe ritrovarsi nelle condizioni di dover cambiare telefonino. Probabilmente si tratta di esagerazioni e nelle reazioni contro le novità proposte da Google avrà il suo peso anche una certa resistenza al cambiamento: la conseguenza inevitabile della barriera culturale che si è formata tra il mondo della nuove tecnologie dell’informazione e un insieme di organismi – quelli di controllo dell’Unione Europea come le magistrature americane – nei quali i soggetti che analizzano e decidono non sono certo dei «nativi digitali».
Ma non ha facilitato il loro compito la decisione di Google di andare avanti a tappe forzate per la sua strada, rinviando al mittente le richieste di avere più tempo per esaminare questioni che sono, comunque, molto complesse: la cultura del rinvio delle burocrazie contro quella, sbrigativa, degli ingegneri della Silicon Valley che vogliono andare sempre avanti a passo di carica con le innovazioni, anche quando producono conseguenze negative. L’idea è che, se le cose non funzionano, si cambia in corsa: un meccanismo probabilmente efficace quando si tratta semplicemente di sperimentare e correggere innovazioni tecniche, assai meno quando si rischia di violare diritti.
Certo, Google è un’azienda quotata in Borsa: se si fa condizionare da pressioni burocratiche, ne risponde davanti agli azionisti. E non tutti gli organismi di controllo sono in allarme: la Federal Trade Commission, l’authority federale, non ha sollevato particolari obiezioni.
Ma l’FTC, che in passato ha condannato Google per «pratiche ingannevoli», adesso è finita nel mirino di varie associazioni per la tutela dei diritti dei consumatori che la vogliono trascinare in tribunale, accusandola di colpevole inerzia.
Come detto la questione è molto complessa: l’unificazione dei 60 diversi sistemi di Google una sua logica ce l’ha. Ma è «naive» dire che tutto è fatto per il bene del consumatore, come se Google fosse ancora la piccola azienda che dieci anni fa cominciava ad affascinare il mondo col suo motore di ricerca e lo slogan «don’t be evil», non fare del male. Adesso è un gigante con 30 mila dipendenti che vale 200 miliardi di dollari la cui linfa sono quei dati dei consumatori che stanno diventando la nuova moneta mondiale. Il nuovo sistema funzionerà, ma farà guadagnare di più Google e avrà un prezzo per i suoi utenti. La domanda è: se ci rifiuteremo di pagarlo quanti passi indietro faremo nel gioco dell’oca della comunicazione digitale?
Massimo Gaggi
28 febbraio 2012 | 12:06
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