La credibilità dell’unione monetaria europea si basa molto sulla credibilità della sua governance. La decisione spagnola di non rispettare nel 2012 l’obiettivo di bilancio fissato in precedenza testimonia le difficoltà di amministrare l’area euro senza un vero governo comune, ma con soli vincoli numerici e in uno spirito di catarsi fiscale.
La sfida di Madrid rappresenta un passaggio cruciale perché la crisi dell’area euro sembra appena entrata in una «fase due» in cui i mercati, appagati dall’abbondante liquidità della Bce, saranno meno determinanti nell’influenzare le politiche dei governi. Decisiva diventa ora proprio la volontà di realizzare le riforme utili a far crescere ogni Paese all’interno di un’area monetaria comune. Da un punto di vista macroeconomico la decisione della Spagna è ragionevole.
Ma annunciata nel giorno stesso in cui 25 Paesi firmano il “fiscal compact”, il trattato internazionale che dovrà disciplinare le finanze pubbliche in futuro, ha il sapore di una sfida al sistema di governance europeo e al pericolo di innescare nuovi fenomeni di contagio. In una condizione di “governo comune”, Bruxelles avrebbe accettato il deficit più elevato in cambio, per esempio, di una riforma delle pensioni che garantisse minori deficit futuri. Ma i vincoli del fiscal compact sono rigidi proprio perché sono figli della sfiducia tra i partner. La risposta di Madrid di certo non migliorerà la fiducia. Ogni Paese affronta dunque la fase due più isolato di quanto sarebbe desiderabile.
In questo quadro, la scelta del Governo Monti di attenersi agli impegni fiscali presi con i partner è corretta, come dimostra la discesa dello spread italiano al di sotto di quello spagnolo. Per l’Italia, dato l’alto debito pubblico, è più importante che per la Spagna essere credibile da un punto di vista fiscale. Ma a vantaggio della Spagna c’è un altro fattore che interessa l’Italia: la capacità iberica di diminuire il disavanzo commerciale e quindi di autofinanziarsi. Nella “fase due” della crisi, infatti, l’Italia è di fronte a una sfida di cui nessuno si era occupato fino a tre mesi fa: recuperare competitività. Dall’inizio della crisi i Paesi della periferia nel complesso hanno più che dimezzato il deficit dei conti con l’estero. Nonostante la recessione, Spagna e Portogallo, hanno addirittura aumentato la loro quota sull’export mondiale spostando i bacini di commercio verso Maghreb e Brasile. Francia e Italia invece vedono la loro posizione competitiva peggiorare insieme alla bilancia dei pagamenti.
La speciale debolezza dell’Italia fa temere che il Paese finisca per non beneficiare né dell’aumento in corso della domanda interna tedesca, né degli affascinanti piani di crescita paneuropei di cui si sente parlare. A differenza dei Paesi della periferia, Francia e Italia stanno infatti perdendo quote anche sul mercato tedesco. E se il Paese non recupera capacità di export, l’aggiustamento dei pagamenti con l’estero avviene con la caduta della domanda, peggiorando il rapporto tra debito e Pil e quindi riaccendendo dubbi “greci” sull’Italia.
L’esperienza dei Paesi iberici dimostra che non è vero che la periferia dell’euro non sia in grado di tenere il passo competitivo della Germania. O che si debba per forza andare verso una deflazione assassina. Non è vero cioè che l’euro sia una moneta che mette insieme lupi e agnelli. Con un po’ di organizzazione e flessibilità il calo della domanda interna consente ai produttori di concentrarsi sui mercati esteri e di importare reddito invertendo la spirale negativa. La fase due della crisi tocca quindi il cuore del sistema produttivo italiano. Se la fase uno poteva finire con un’esplosione, la fase due può finire con un sospiro, ma è quasi altrettanto pericolosa e forse ancora più complessa da governare e risolvere.
La scommessa della “fase due”
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