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Crisi dell’euro: le ragioni dell’economia reale

Il problema del debito sovrano nell’eurozona è unicamente la punta di un iceberg molto più profondo che ha le sue radici nell’economia reale e nella scarsa considerazione della teoria economica più elementare da parte di coloro che hanno negoziato i trattati europei degli ultimi vent’anni.
Iniziamo dall’economia reale con un cenno alla storia economia. Gli studi di Angus Maddison (A. Maddison The World Economy Historical Statistics, OECD 2003) sono giunti a ricostruire la contabilità economica nazionale delle maggiori aree economiche a partire dal 1830. Allora il 43 per cento del Pil mondiale era prodotto e consumato da India e Cina. Il mondo era in gran misura in un’economia di sussistenza (pur se con isole di ostentata opulenza come Versailles, i Palazzi Regi dei Rajput, la Città Proibita di Pechino) dove dominava il baratto e l’agricoltura itinerante, non sempre integrata con la trazione animale. Da allora per circa 160 anni un piccolo gruppo di Paesi (Europa, Nord America, Australia/Nuova Zelanda) hanno avuto il monopolio del progresso tecnologico. Un monopolio non imposto con armi, frontiere o regolamenti ma risultato della maggiore dotazione di capitale umano e sociale (J.D. North, Institutions, Institutional Change and Economic Performance, Cambridge University Press, 1990); quindi, un monopolio naturale nel lessico dei cultori della triste scienza. Negli Anni Novanta, tale monopolio si è esaurito (G. De Filippi e G.Pennisi Etat et nouvelles responsabilités sociales dans un monde global = Strasbourg , Conseil de l’Europe – 2003 ) per una varietà di determinanti: le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non si prestano al monopoli ma ad autoregolamentazione – anzi tanto più sono utili quanto più si diffondono (G. Pennisi Esclusione ed Inclusione Sociale nell’età della tecnologia dell’informazione e della comunicazione in “Sociologia” No 2/3 1995); i Paesi considerati in via di sviluppo hanno posto dagli Anni Cinquanta grande accento (Unesco World Education Report, Parigi 2005) sull’istruzione e sulla formazione; molti di essi hanno fatto perno su reti informali di lunga data, quale la cultura confuciana che hanno attivato capitale sociale come peraltro già presagito da Gerschenkron, nel 1962 (A. Gerschenkron,, Economic backwardness in historical perspective, a book of essays, Cambridge, Massachusetts: Belknap Press of Harvard University Press). Queste ed altre determinanti hanno fatto uscire dalla sussistenza 3-4 miliardi di persone e stanno comportando un profondo riassetto delle strutture di produzione e dei modelli e livelli di consumo, nonché dei loro livelli, come recentemente sottolineato, tra gli altri, da Paolo Savona (P.Savona, Eresie, Esorcismi e Scelte Giuste per Uscire dalla Crisi: il Caso Italia, Saveria Mannelli, Rubettino 2012).
In questo contesto di profondi cambiamenti e di grande incertezza, alcuni Paesi hanno saputo non solo mostrare efficienza adattiva (ossia la capacità di trovare la flessibilità per adattarsi rapidamente al nuovo quadro) ma anche l’astuzia di cogliere le opportunità offerte dall’incertezza (G. Pennisi e P.L. Scandizzo Valutare l’Incertezza, Torino Giappichelli 2003) . Altri hanno brillato per difetto e di capacità e di astuzia.
In Europa continentale, quello che viene chiamato “il nuovo miracolo economico tedesco altro non è che l’esempio di chi ha saputo dare prova di efficienza adattiva”, capacità ed astuzia. Nella grande crisi iniziata nella seconda metà del 2007, la Germania rappresenta in Europa un caso di studio. Il Pil è tornato a livelli pre-crisi e il tasso di disoccupazione sfiora il 6%. Non solo: il numero di coloro che ricevono varie forme di sussidi di disoccupazione è diminuito e la produttività del lavoro ha superato i tassi calcolati per Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Giappone (vedi grafico a fianco). Il numero di lavora¬tori a tempo parziale, poi, sui quali si sta discutendo in queste ore in Italia, è passato dai 2 milioni nel 1999 ai 200mila dell’ultima conta.
A tirare fuori la Germania dalla recessioni è stata innanzitutto l’industria manifatturiera (al netto delle costruzioni) e le attività primarie (dell’agricoltura e della pe¬sca), mentre il terziario (includendo anche banche e finanza) ha segnato il passo.
Un vero ‘miracolo economico’, come sostengono alcuni autori ricordando che nel 1990, al momento della riunificazione, e della stesura dell’«Agenda 2010» per l’Unione Europea la Germania veniva chiamata «il malato d’Europa»? Oppure – come sottolineano Ulf Rinne e Klauss Zimmermann dell’Istituto tedesco di studi sul lavo¬ro in un’analisi appena pubblicata a Norimberga – «un miracolo del mercato del lavoro » (U.Rinne, U., K. F. Zimmermann “Another Economic Miracle? The German Labor Market and the Great Recession,” IZA Discussion Paper No. 6250, 2011)?
L’analisi di Rinne e Zimmermann sottolinea che a trainare la riorganizzazione dei settori produttivi tedeschi sono state le riforme del mercato del lavoro (e del sistema previdenziale) attuate tra il 2002 ed il 2005, quando i socialdemocratici ed i verdi erano al governo, grazie ad una coalizione illuminata di sindacalisti e di imprenditori. Queste riforme hanno, in primo luogo, rafforzato il sistema ‘duale’ tedesco di formazione ed istruzione in base al quale i programmi prevedono esplicitamente periodi di lavoro in azienda che vengono valutati al pari di tutte le altre materie per passare da una classe all’altra. In secondo luogo, è stata introdotta una grande flessibilità all’interno delle imprese: nelle fase più dure della crisi si sono ridotte le ore di lavoro, cambiati i turni, modificate le mansioni per salvaguardare i livelli di occupazione ed aumentare efficienza e produttività.In terzo luogo, si sono resi più stringenti i requisiti per fruire di ammortizzatori sociali.Inoltre, mentre il resto d’Europa si arrabattava ad aumentare tasse per fare quadrare i conti, il Governo della Repubblica Federale adottava due programmi espansionistici (36 miliardi di euro nel 2009 e 47 miliardi di euro nel 2010) articolati su riduzioni tributarie specialmente alle famiglie (aumentando le deduzioni per ciascun figlio, nonché quelle per spese mediche) al fine di tenere elevata la domanda interna mentre con la ristrutturazione dell’industria per l’export si lanciava alla conquista di nuovi mercati. Questi punti vengono confermati e rafforzati dall’economista Anke Hassel nella monografia di prossima pubblicazione “The Paradox of Liberalization – Understanding Dualism and the Recovery of the German Political Economy” ma disponibile da alcune settimane ai soci del Social Science Research Network. Anche gli Stati Uniti ed il Canada (nonché in buona misura, la Gran Bretagna) hanno dato prova di efficienza adattiva, capacià ed astuzia. Altri come aveva preconizzato Mynski sin dagli Anni Settanta (H. Mynski The Financial Instability Hypothesis: A Restatement, 1978, Thames Papers on Political Economy) si sono illusi che una volta costruita l’eurozona, tutti si sarebbero “difesi” a vicenda, i tassi d’interesse sarebbero rimasti bassi e gli squilibri delle partite correnti all’interno dell’area si sarebbero annullate; non solo non hanno attuato le riforme rece necessarie dal nuovo contesto mondiale ma hanno esteso a dismisura il credito totale interno creando l’Himalaya del debito (F. Giavanni, L. Spaventa Why the Current Account Matters in a Monetary Union: Lessons from the Financial Crisis in the Euro Area CEPR Discussion Paper No. DP8008).
Dall’economia reale e dalla sua storia, passiamo ad alcuni punti di teoria economica. Ricorrono in questi mesi, i cinquanta anni dalla pubblicazione di The Theory of Economic Integration di Bela Balassa (B. Balassa The Theory of Economic Integration Irwing, Homewood 1961). Balassa era scappato dall’Ungheria nel 1956 e per alcuni era vissuto con una borsa di ricerca conferitagli dal Consiglio d’Europa. In tal scrisse un lavoro che viene ancora oggi considerato precursore di tutto il pensiero sull’integrazione economica di Paesi in una ben definita area geografico. Prima del libro, gli diede fama un articolo sul tema pubblicato dalla rivista scientifica Kyklos (B. Balassa Towards a Theory of Economic Integration, Kyklos Vo. 14 No.1) Si sentiva molto europeo – lo ho avuto come docente ed amico. Ma se portò via il mondo accademico americano. Si trasferì a Washington dove insegnava economia internazionale al campus di Baltimora della Johns Hopkins Università ed era Senior Consultant della Banca mondiale.
Balassa ha aperto un solco importante, partendo da letteratura precedente (da Haberler a Meade, da Tinbergen a Scitovsky) che, però, aveva poco a che fare con l’integrazione europea (ancora nel grembo degli Dei quando molti di loro scrivevano e pubblicavano). Soprattutto il libro di cinquanta anni fa analizzava gli effetti economici statici e dinamici precorrendo Paul Krugman, il cui Premio Nobel deve molto ove non tutto a Balassa.
Di recente uno dei “padri” dell’eurozona, Andrè Sapir ha pubblicato nell’ultimo fascicolo del Journal of Economic Literature (A. Sapir European Integration at the CrossRoads A Review Essay on the 50th Anniversary of Bela Belassa Journal of Economic Literature December 2011) in cui in trenta dense pagine si passano in rassegna critica oltre 200 titoli di letteratura economica sull’integrazione, soprattutto quella europea. Vista alla luce della “teoria” di Balassa, la politica agricola comune ne esce meno male di quel che possa sembrare. Le pagine sull’unione monetaria e sulla crisi dell’eurozona invece dovrebbero essere letti dai suoi dirimpettai di Via Venti Settembre – al Ministero dell’Economia e delle Finanze. In breve, Balassa (e con lui Meade e Mundell, loro il Nobel lo ebbero) avrebbero bocciato senza possibilità di appello o ricorso gli estensori del Trattato di Maastricht in quanto privo degli appigli elementari alla teoria economica. Balassa, in particolare, aveva preconizzato che un “processo squilibrato” (unione monetaria prima dell’unione delle politiche di bilancio e, quindi, dell’unione economica) avrebbe avuto il germe della crisi. Lo ammette lo stesso Sapir pur considerato euro entusiasta nel 1990-92. Oggi – sostiene Sapir – o si va verso qualche forma di unificazione politica (ma chi la vuole?) oppure verso un mesto “Bye, bye Maastricht”.
Il “Fiscal Compact”, in fase avanzata di negoziato tra 25 dei 27 Stati dell’UE, contribuirebbe a risolvere il problema? Se utilizziamo il metodo di The Theory of Economic Integration, potrebbe aggravarlo poiché una politica di bilancio unica degli Stati dell’Unione dovrebbe essere preceduta da un’unione politica di cui non si vedono neanche i prolegomeni (tra culture, lingue e storie così differenti, tali prolegomeni dovrebbero essere una politica comune di difesa con fusione degli Stati Maggiori militari poiché la difesa è il bene pubblico che meglio caratterizza un’unione politica).
Nel contesto attuale internazionale ed europeo, potrebbe poi aggravare le tendenze recessive ed aumentare il peso del debito sul Pil.

Fonte: Mondo Operaio n.3 2012

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