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Rigore e crescita falso dilemma

Il cuore di tutte le campagne elettorali europee è diventato l’antagonismo tra crescita e austerità. Se esistesse un “partito della crescita” avrebbe partita vinta in Francia, Grecia, Olanda e ovunque si voti in questo fine settimana.
Anche in Italia il problema di trovare una soluzione alla crisi dell’euro, ricostruire la fiducia nelle economie nazionali e nel destino della moneta unica, sembra uscito dal discorso dei partiti, scacciato dall’invocazione della crescita. Per il nostro Paese, in particolare, questo sviluppo del confronto tra Paesi e partiti d’Europa nasconde rischi importanti.
D’altronde, ogni volta che osserva il richiamo alla crescita in Europa, un italiano rischia di diventare strabico. Un occhio è abbagliato da grandi piani di infrastrutture comuni tra Paesi diversi, l’altro guarda alla Val Susa: un progetto finanziato dall’Unione europea che tutti gli altri Paesi realizzano e che in Italia suscita, tra ragioni e torti, conflitti e rinvii.
È auspicabile un piano europeo di investimenti pubblici per 100 o 200 miliardi finanziato dalla Bei, in un continente in cui i bilanci pubblici e privati sono paralizzati dai debiti, ma all’Italia serve prima di tutto assicurare a imprese e famiglie la possibilità di finanziarsi a tassi d’interesse umani, anziché pagare tre-quattro punti percentuali in più dei tedeschi.
Se sono i costi del debito (e le tasse che ne derivano), dei mutui e dei prestiti a pesare, allora per l’Italia è preferibile ottenere prima di tutto una prospettiva d’uscita dalla crisi finanziaria europea. Significa rafforzare la disciplina nazionale sui conti pubblici futuri – non indebolirla – in cambio di certezze sul futuro dell’euro. Può essere un sentiero a scadenze verso l’integrazione politica, come credo sia indispensabile, o un impegno all’introduzione di titoli comuni del debito (eurobond o eurobills) che quanto meno offrano alle banche di tutti i Paesi uno strumento sicuro da mettere nei portafogli, o infine può essere un fondo di aiuto delle banche che ponga tutto il credito europeo sotto la stessa garanzia. Ognuno di questi strumenti ha implicazioni fiscali, cioè distribuzione di costi tra i diversi Paesi e richiede quindi volontà politica. Ma non si esce da questa crisi senza dare ai mercati la certezza di condizioni sostenibili per tutti i Paesi nell’area dell’euro nei mesi e negli anni a venire.
Il presidente della Bce, Mario Draghi, giovedì ha osservato che è prematuro escludere che i due ultimi prestiti della Banca centrale abbiano effetti sulla crescita già nel 2012. Infatti c’è abbondante liquidità che attende le condizioni per essere utilizzata. Se questo non succede non è perché ci troviamo in una classica trappola della liquidità da cui nasce la necessità di spesa keynesiana. Ma perché l’incertezza sul futuro dell’euro è ancora così elevata da mantenere tassi d’interesse troppo alti nei Paesi critici che corrispondono a metà del Pil dell’area euro.
La spesa pubblica europea rischia così di diventare una distrazione piacevole per i partiti. E il tema della crescita si collega a quello della politica. È opinione comune che i cittadini europei si stiano ribellando alle politiche di austerità coordinate dall’Europa e che stiano gonfiando le vele dell’antipolitica. Lo si vede dappertutto… tranne nei sondaggi.
Un collega ha calcolato la scomposizione dei voti dei francesi al primo turno delle presidenziali del 2012 e del 2002. Se si raggruppano gli elettori per famiglie politiche (estrema destra, gollisti, centro, sinistra) le differenze sono minime, pochi decimali. In dieci anni non è cambiato nulla. In compenso l’astensionismo è diminuito.
In Grecia dietro le quinte i partiti stanno negoziando un’altra grande coalizione e non è escluso che resti in carica Lucas Papademos. In Olanda uscirà dal governo il partito xenofobo. In Germania più i partiti sono europeisti e più guadagnano consensi. Quello che manca ovunque è una proposta politica nazionale calibrata sulla realtà europea. O meglio, in Paesi come l’Italia, il Portogallo e la Grecia, si è riconosciuto che era necessaria una guida “europea”, ma più per disperazione che per scelta. Così Mario Monti è circondato da una retorica dei partiti che è in alcuni casi “scatenata”, cioè libera delle catene della realtà che non erano stati in grado di sopportare quando erano al governo.
Che la crisi europea sia una crisi della politica nazionale lo si vede in Francia. Chiunque vinca tra Hollande e Sarkozy, nessuno dei due otterrà un mandato elettorale per realizzare le riforme di cui Parigi ha bisogno, per il semplice fatto che nessuno dei due si è sognato di chiedere un tale mandato durante la campagna elettorale. Il bilancio pubblico francese è fuori linea da prima che nascesse l’euro. Ma è molto più facile discutere davanti agli elettori della crescita europea. Forse non è un caso che Olanda e Francia siano gli stessi due Paesi che bocciarono la Costituzione europea nel 2005.
Il risultato è che, mettendo in alternativa austerità e crescita, i dubbi sulla futura correzione degli squilibri – non solo quelli di bilancio – nelle economie europee proseguiranno e che in Germania si continuerà a pensare che solo la pressione dei mercati, cioè alti tassi d’interesse nei Paesi più deboli, costringerà i governi a fare risparmi e riforme. Ma, come diceva un filosofo tedesco, «questa missione è sia la cura sia la causa della mia malattia».

Fonte: Sole 24 Ore del 5 maggio 2012

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