Da un G8 pieno di facce nuove al G20 Plus: da metà maggio sono previsti diversi vertici tra capi di Stato. Però non sembrano imminenti decisioni forti come la fine del dollar standard e l’adozione degli eurobond.
Il 18 e 19 maggio prossimi si terrà nel mitico Camp David un Summit del G8 al quale parteciperanno due, forse tre, nuovi capi di Stato: Monti, Noda, il presidente francese e Putin (che rientra).
Si spera che la «riesumazione» del G8 non serva solo alla campagna elettorale di Obama, ma porti a individuare una linea politica per uscire dalla recessione mondiale da presentare al Summit del G20 che si terrà a Los Cabos in Messico il 18-19 giugno; a questo seguirà un Summit del G20 plus che, come noto, accoglie i rappresentanti di organizzazioni interregionali come quella asiatica, africana e mediorientale.
Questa intensa tornata di incontri prevede infine un Summit della Nato a Chicago, subito dopo l’incontro di Camp David, dove verranno esaminate le crisi in Iran, Siria, Nord Africa, Afghanistan e Corea, che pesano sul futuro dell’economia mondiale.
La pubblica opinione si attende che i vertici trovino il modo per sospingere crescita e occupazione in un clima di pace, ma sa che il pianeta si dibatte in una situazione di instabilità finanziaria e di pressione sulla spesa pubblica con rapporti internazionali sempre più tesi nelle aree calde.
C’è da sperare che i leader trovino la quadratura del cerchio meglio di quanto non abbiano saputo fare ministri e governatori del G20 finanziario di Washington (19-20 aprile), forse perché nel mondo esistono quattro gruppi di Paesi con politiche inconciliabili: c’è chi guazza nei deficit di bilancio pubblico per spingere lo sviluppo (come Usa, Giappone e Regno Unito), chi si dibatte con la corda al collo della stabilità fiscale per tornare alla crescita (come Grecia, Spagna e Italia), chi cresce e non ha né l’uno né l’altro problema (come Cina, Germania, Paesi petroliferi) e chi non si pone il problema perché muore di fame (come il Corno d’Africa).
Il Comunicato di Washington è talmente ricco di commitment da risultare stordente. Promette di fare questo e quello da proporre al Summit di Los Cabos, ma solo su due punti si esprime chiaramente: sull’aumento delle risorse del Fmi per 430 miliardi di dollari e sui ritardi nell’attuazione del Piano di aiuti per combattere la fame nel mondo deciso nel 2009 al Summit dell’Aquila.
È noto che le decisioni di intervento richiedono anni affinché maturino gli effetti e non è quindi il caso di riempire il mondo di speranze di crescita che i leader non sono in condizione di soddisfare; anche perché si sa che, tornati a casa, faranno esattamente quello che è interesse del loro Paese, dimenticandosi degli altri o solo preoccupandosi dei danni che essi possono causare; questa volta è l’Europa sotto accusa.
Se proprio vogliono essere concreti devono decidere di porre fine al dollar standard e darsi una moneta internazionale, introdurre una clausola nello statuto del Wto che imponga ai Paesi lo stesso regime di cambio, approvare le liberalizzazioni del «Doha round» e andare oltre, varare una regolamentazione finanziaria e un piano di coesione tra Stati ricchi, poveri o in difficoltà.
Di tutto ciò si è persa traccia nei comunicati ufficiali, anzi su talune riforme si registra un passo indietro, anche perché non esistono più correnti politiche che li tengano in agenda.
Il Summit europeo di Bruxelles del 26 aprile conferma il pessimismo: dopo aver usato la crisi dell’euro per spingere le riforme, si promette riduzione delle tasse e crescita purché si completino quelle non fatte. Si vagheggia l’emissione di eurobond per finanziare infrastrutture, ma l’attuazione chiede tempo (che non c’è).
Nel mentre la Commissione ha richiesto un aumento delle risorse, dopo aver proposto che parte crescente delle sue entrate sia coperta con un’Iva europea; ossia più spese e più tasse, proprio ciò che non si deve fare. Non è più all’Europa che l’Italia deve badare, ma a se stessa.
Una fitta agenda internazionale. Ma per fare che?
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