La cronaca, la storia e le esperienze personali consigliano di coinvolgere il popolo sul futuro dell’unione monetaria europea.
Lincontro tra la Merkel e Hollande non sembra aver rasserenato gli animi sulla possibilità che la politica fiscale europea cambi registro. Parrebbe che Monti sia rientrato rabbuiato da Bruxelles. Neanche la notizia che la Grecia è in cattive acque sembra spaventare la Germania, che resta la maggiore beneficiaria dell’euro così com’è, in quanto le sue esportazioni godono di un rapporto di cambio (per essa, non per noi) sottovalutato. Il Fmi, per bocca della signora Lagarde, ha ammesso che la Grecia può uscire senza traumi per l’euro, a conferma che ci stanno seriamente pensando e preparando, la quale cosa non sembra stia facendo l’Italia, almeno dalle reazioni, ma ancor più dai silenzi seguiti alla mia richiesta, avanzata su questo stesso quotidiano dall’agosto scorso, di avere pronto un Piano B, un programma di uscita ordinata dall’euro.
Il rifiuto di discutere apertamente della possibilità che si decida di uscire dall’euro, o prepararsi a farlo se la realtà ce lo imponesse, ha la stessa matrice persistente del rifiuto di sottoporre al voto popolare la decisione di entrarci, per responsabilizzare i cittadini nell’intraprendere la “rivoluzione monetaria” (perché tale era). Si è preferito illuderlo sostenendo che sarebbe stata la panacea dei nostri mali economici e il presupposto per lo sviluppo. Uno studio commissionato per volontà della Commissione guidata da Delors e condotto da un italiano, Paolo Cecchini, prometteva una crescita reale nell’ordine del 4-6 per cento e grande stabilità monetaria. Le conclusioni del rapporto furono prese a base del documento usato per propiziare la firma del trattato di Maastricht e indicava i vantaggi della liberalizzazione dei mercati e i benefici che si sarebbero persi se non si fosse firmato. Stento a credere che Guido Carli potesse credere che così fosse, mentre so per certo che egli avesse perso fiducia nella capacità degli italiani di sapersi dare comportamenti coerenti con le necessità del nuovo quadro geopolitico e geoeconomico e, pertanto, fosse necessario rinforzare il “vincolo esterno”.
Lunghe discussioni e importanti impegni operativi con questo mio grande maestro, da me affidate postume a un pamphlet intitolato “L’Europa dai piedi di argilla” (Scheiwiller 1995), mi suggerivano che l’architettura europea non rispondesse agli obiettivi di crescita e che gli italiani dovessero essere coinvolti nella scelta e non essere trattati da cretini. Prendevo infatti a prestito da Carli una memorabile battuta, che egli stesso riferì, di una riunione del Cipe in cui si svolse una disputa sulla ripartizione degli incarichi pubblici e rimase silente fintanto che gli venne chiesto quale fosse il suo giudizio. Rispose: “Ricordatevi che gli italiani non sono cretini”.
Eppure sono stati trattati come tali e ancora lo sono. E non solo per l’euro. Per studi, per esperienza familiare e sociale e per carattere ritengo che gli italiani non siano cretini e capiscono ciò che a loro convenga o non convenga; come tali, sono capaci di sacrifici di fronte a situazioni difficili che lo richiedano. Abbiamo un carattere che altri non capiscono e che sovente i governanti non contribuiscono a chiarire. Il dibattito politico e culturale certamente non li aiuta a capire, ma messi di fronte alle scelte, scelgono, e nessuno, neanche le “élite illuminate”, possono o sono autorizzate a sostituirsi a essi nell’esercizio di questo compito civile. Si chiama democrazia e la ripresa, anche in Europa, passa dal ripristino di questo meccanismo rozzo, ma importante per i sistemi di libertà. Prima lo capiamo, meglio è.
Urge per l’Italia piano B per un’uscita ordinata dall’euro
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