La Banca centrale europea può intervenire per limitare i danni della crisi europea, «ma ha spiegato ieri Mario Draghi non penso che sia giusto che la Bce riempia il vuoto di iniziativa di altre istituzioni».
Normalmente i mercati finanziari avrebbero avuto poca pazienza con le cautele istituzionali europee. Ma non così ieri. La Bce ha lasciato fermi i tassi e Draghi ha richiamato la responsabilità dei governi, ma gli investitori hanno reagito positivamente.
Che cosa si può vedere in filigrana di così incoraggiante in queste settimane cruciali? Tutto e niente: un grande disegno sul lungo termine ma pochi colpi di magia sul breve termine. Il grande disegno che sta prendendo forma è composto da tre passi verso un’integrazione europeo più avanzata. Un progetto di unione fiscale che dia spessore di governo al fiscal compact attraverso meccanismi di coordinamento delle decisioni nazionali di spesa e tassazione. Un’unione dei mercati finanziari europei attraverso sistemi comuni di risoluzione delle crisi bancarie, di garanzia dei depositi e di supervisione bancaria sovranazionale. Infine un processo di costruzione di un’unione politica legittimata democraticamente. A fine giugno sarebbe bello che i capi di stato e di governo elaborassero una tabella di marcia. Per esempio fissando per il 2013 l’unione bancaria. La scadenza per l’unione fiscale potrebbe essere il 2015, quando i bilanci dei 17 paesi dovrebbero essere tutti vicini all’equilibrio e i debiti pubblici dovrebbero cominciare a scendere ovunque grazie anche ai limiti costituzionali adottati. Infine dal 2020 si potrebbe disporre di un assetto federale per l’euroarea all’interno delle istituzioni dell’Unione europea. Fissare una tabella di marcia avvicina il traguardo.
Nel frattempo tuttavia alcuni non trascurabili dettagli oscurano il luminoso orizzonte del grande disegno: le elezioni in Grecia tra dieci giorni si decidono sul filo di come si sveglierà quel giorno un due per cento di elettori. Se saranno di cattivo umore potrebbero trasformare la casa comune dell’unione monetaria in un hotel a ore dove si esce e si entra senza nemmeno lasciare i documenti. Inoltre i dati economici più recenti dimostrano che la spirale tasse, recessione, debito e ancora tasse potrebbe diventare inarrestabile in molti paesi. Infine un brivido di paura sul mercato degli interest rate swap – pari credo a 25 volte il volume totale dei titoli pubblici europei – potrebbe spezzare la spina dorsale del debito che fa stare in piedi gli Stati europei.
Per buone ragioni dunque Draghi ha aggiunto ieri che, se le cose peggiorano, «la Bce è pronta ad agire». Agli acrobati sul filo si dice di guardare avanti. Non c’è il filo? Ieri i mercati ci hanno creduto lo stesso. D’altronde sembra non ci sia limite alla flessibilità dei Trattati europei sotto emergenza: le banche spagnole possono essere salvate; i titoli degli Stati deboli possono essere acquistati; e la liquidità può essere rinnovata senza fine. In tempi di incertezza calano i depositi e diminuisce la velocità di circolazione della moneta e quindi la disponibilità della Bce a fornire credito è il vero ossigeno di cui l’euro non può fare a meno, ben più del livello nominale dei tassi d’interesse.
La probabile assenza di un colpo di scena finanziario che risolva la crisi – eurobonds, o superfondi salva-stati – ha però conseguenze sulla politica nazionale. Se dalla crisi usciremo solo lentamente è necessario ritrovare fiducia ponendo al centro del dibattito politico un progetto decennale non solo europeo ma anche italiano. Ragionare cioè sull’Italia del 2020, così come l’Europa, per ritrovare fiducia in se stessa, affronta il tema dell’Europa nel 2020. Fu proprio Mario Monti a suggerire ai passati governi l’adozione di un traguardo temporale. Vale la pena di riscoprire questo sforzo di progettazione e ancoraggio al lungo termine perchè quando c’è sfiducia nelle istituzioni, come in Italia o in Grecia, non sono solo i mercati ad avere la vista corta, ma anche i partiti e prima o poi anche gli elettori.
Nei prossimi anni l’Italia d’altronde continuerà a dibattersi tra crescita e austerità fiscale. La politica è pronta a riappropriarsi del dibattito solo attraverso le categorie del Novecento. Una visione neoconservatrice fa leva sulla pulsione popolare anti-tasse per propugnare lo Stato minimo. Una visione keynesiana punta invece sulla spesa pubblica. Dove siano in questo quadro le riforme strutturali, gli investimenti per le generazioni future, lo sviluppo dell’istruzione e l’equilibrio tra efficienza fiscale e giustizia sociale è difficile da vedere. Le incongruenze sono così chiare ai cittadini da farli preoccupare prima di tutto del controllo sulle risorse comuni: lo Stato può essere o non essere il fornitore esclusivo di servizi collettivi, ma dovrebbe essere il primo a controllare. Poiché succede il contrario, cioè che proprio la politica è vista come il primo dissipatore di risorse, cresce la sfiducia dei cittadini nei partiti e nello Stato. Assumere un orizzonte decennale è una strategia importante per l’Europa, ma forse lo è molto di più per l’Italia per far sì che la politica non deragli dai confini del confronto democratico.
Come acrobati sul filo
Commenti disabilitati.