Nessuno ha il coraggio di dirlo, ma se si vuole evitare il collasso della moneta unica prima del 2014 bisogna che la Bce intervenga sul debito dei singoli stati. Che, in fondo, non è diverso da quello che in America fa la Fed.
“Una decisione del genere potrebbe essere presa solo con un forte avallo politico: e arriverà solo quando la Merkel si convincerà che conviene anche alla Germania”.
La fine dell’euro è rinviata, ma non scongiurata. Per un mondo che ha voglia di buone notizie, è bastato un impegno dei paesi del G20 a promuovere la crescita, insieme alla promessa dei paesi dell’Eurozona di “interrompere il circolo vizioso” che espone le banche, sovraccaricate di debito pubblico, a diventare il bersaglio della speculazione, per distendere i nervi nelle Borse e sugli spread. Il doppio balsamo ha placato da un lato i paesi emergenti, terrorizzati all’idea di un contagio che può ingrippare i loro motori, e dall’altro ha lenito i grandi ustionati dell’euro, quei Gipsi (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia) da cui è partita la crisi e che sono il fronte debole dell’unione monetaria, ma non basta certo a fermare l’orologio che sta scandendo il quattordicesimo anno della moneta europea, e che potrebbe essere l’ultimo.
“Viviamo nell’attesa dell’evento, dell’incidente che può far precipitare tutto”, dicono spaventati molti operatori. Il classico battito d’ali di farfalla da cui si può scatenare il terremoto: può essere la fuga improvvisa dei depositi di una banca o un’emissione di titoli di Stato che resta invenduta. Sarebbe l’eclissi dell’euro. A meno che non si arrivi, dopo tante promesse e false partenze, alle decisioni più difficili ma che possono ancora dargli un avvenire.
Quali sono queste decisioni? “Ora tutti hanno capito che un sistema monetario senza un’unione fiscale è instabile”, dice a “l’Espresso” Michael Spence, professore a Stanford e Nobel per l’economia nel 2001, “come sono certo che l’euro non possa sopravvivere se Spagna e Italia non ne dovessero far parte”. Ma oggi il problema è un altro. Anche se “la Grecia uscisse, e sarebbe meglio che lo facesse”, dice ancora Spence, “i mercati continueranno a stare alla larga dai titoli europei se non vedranno una svolta concreta, un vero segnale di novità”.
Qualcosa di più di quanto la Bce sta già facendo, con l’iniezione di liquidità da un miliardo con cui ha dissetato negli ultimi mesi il sistema del credito: “La Bce sta solo comprando tempo”, dice il Nobel, “il mio consiglio è quello di far scendere in campo il Fondo monetario, sia con il suo monitoraggio sia con le sue munizioni. E di creare forti poteri fiscali europei centrali e anche una struttura centralizzata di supervisione delle banche”.
Passi tutt’altro che facili. Su questo fronte gli europei hanno buon gioco a puntare il dito verso gli Usa, il cui presidente Barak Obama si è mostrato così impaziente nel sollecitare le noste riforme. In realtà tutte le decisioni prese finora per riformare il sistema finanziario a livello internazionale si sono impantanate, tanto che la pagella stilata in aprile dal Fondo monetario ha assegnato totale insufficienza a due ambiti cruciali come l’attività bancaria ombra e i derivati.
E molti prevedono che il clima preelettorale negli Stati Uniti e in Germania non appiani il cammino degli interventi di regolazione, anzi. Sia le nuove regole di Basilea per le banche europee, sia la riforma finanziaria Dodd-Frank per quelle Usa, impongono sacrifici ai bilanci dei signori del credito, cosicché loro sono ben contenti di poter schivare ulteriori tirate di briglie.
Sta ai politici, ora più che mai, dimostrare di avere la schiena dritta, e di volere davvero, questa volta, rinunciare a nazionalismi e a calcoli di bottega. A cominciare proprio dalle banche: per i loro salvataggi i contribuenti europei hanno già speso parecchi miliardi, ma loro restano esposte alle debolezze del paese in cui operano, e del quale spesso devono acquistare titoli del debito pubblico, accrescendo la propria vulnerabilità. Il neopresidente francese François Hollande ha già fatto la sua avance: ha suggerito di dare alla Bce la supervisione sulle grandi banche di sistema, quelle sovranazionali. Ma se la governance europea deve esprimersi attraverso la creazione di istituzioni sovranazionali nuove di zecca, occorre andare oltre, verso una vera unione bancaria, con vigilanza e requisiti di solidità uguali per tutti.
Per affrontare le crisi del credito, poi, altro strumento è stendere una rete di sicurezza attraverso un Fondo salva-banche che eviti di sparare aiuti senza però rassicurare i mercati, come accade in Spagna: i 100 miliardi promessi dallo European Stability Mechanism non sono serviti a tenere lontana la speculazione perché non andrebbero direttamente alle banche in difficoltà, ma al governo di Mariano Rajoy, che li dovrebbe contabilizzare come nuovo debito pubblico, il che fa scattare la spirale perversa di un ulteriore rialzo dei tassi.
Infine, come ha appena richiesto anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nella sua relazione annuale, serve un’assicurazione unica dei depositi dei risparmiatori europei che li garantisca tutti allo stesso livello ed eviti corse agli sportelli come quelle che si sono viste in Grecia, dove un terzo dei depositi si è volatilizzato. Tutte operazioni che comportano non solo una cessione di sovranità, ma anche un impegno collettivo a mettere mano al portafoglio, e dunque una funzione fiscale centralizzata. Visto che il portafoglio più dotato è quello tedesco, è Angela Merkel la più refrattaria: “Le risorse della Germania non sono infinite”, ha detto per mettere le mani avanti. E certamente, se si trattasse di fare fronte a una crisi non solo spagnola, ma anche italiana, le forti spalle tedesche non basterebbero di certo. E’ per questo che serve di più.
La vera arma totale è un’altra, ed è ancora più radicale. E’ quella di intervenire a livello europeo sul debito dei singoli Stati membri. Non solo per calmierarne i tassi, ma addirittura per ridurne il peso assoluto e rispetto al Pil, e liberare risorse per la crescita. Un tabù, finora, una vera eresia. Eppure, è l’unica strada che tutti indicano come il muro tagliafuoco a difesa dell’euro. Quello che può evitare che la valuta nata sul modello del marco si trasformi in un oggetto da museo, da indicare ai posteri come il fallimento di un intero continente. Uno scenario che al G20 si è materializzato con nettezza, mettendo in piazza l’impotenza degli organismi di Bruxelles guidati da José Barroso, le ironie e i nervosismi del leader cinese, il disorientamento dei più poveri. Cioè facendo tremare il mondo intero, tanto di spingere i dinamici Bric, i giganti Brasile Russia India e Cina, ad accordarsi per creare un fondo di mutuo soccorso in caso di peggioramento della crisi dell’eurozona.
Ebbene, chi se non la Bce può usare quest’arma totale? Si tratterebbe, in fondo, di darle gli stessi poteri che oggi hanno la Fed e la Banca d’Inghilterra: quello di acquistare titoli sovrani, mettendo un limite al tasso di interesse. “Se riuscissimo a convincere i nostri partner che la Bce dovrebbe finanziare a tassi molto bassi, dello 0,5-1 per cento, non solo il deficit immediato ma anche parte del debito accumulato dagli Stati, acquistando direttamente le obbligazioni emesse dai rispettivi tesori, potremmo mettere fine alla virulenza della crisi”, scrive nel suo libro “Bisogna uscire dall’euro?” l’economista francese Jacques Sapir. E’ una ipotesi, questa, che ha anche una stima di costo: tra i 1.200 e i 1.500 miliardi di euro, quanto speso dalla Fed per i suoi “quantitative easing”. Un’ondata di nuova moneta con cui ha tenuto basso e competitivo il dollaro; ora ci sarebbe un effetto simile sull’euro, ridando slancio alle esportazioni. Una scorciatoia alla soluzione Bce potrebbe essere l’uso dell’Efsf, il Fondo per la stabilità finanziaria, prima affiancato poi sostituito dall’Esm, lo European Stability mechanism.
Un’altra soluzione ancora è quella proposta dall’economista Alberto Quadrio Curzio: un Fondo che si finanzia con emissioni di eurounionbond per rilevare quote di debito pubblico e fare investimenti.
Che ci si arrivi direttamente oppure attraverso la porta di servizio degli eurobond o ricette simili, sembra essere questa la direzione in cui si vogliono muovere Monti e altri leader europei: tagliare il debito e stabilizzarne i tassi. Domando lo spread, la scimmia che morde la schiena dell’euro. Ma naturalmente tutto ciò ha bisogno di un forte avallo politico. Soprattutto da parte dei paesi europei più virtuosi, la cui opinione pubblica è contraria a sobbarcarsi le spese di quelli più scapestrati.
Frau Merkel ha chiesto, come precondizione a qualsiasi trattativa, l’impegno alla disciplina di bilancio. Ma non a parole: il fiscal compact che la prescrive richiede che venga tradotta in legge di forza costituzionale. D’altra parte, come si fa a fidarsi di partner che truccano i conti, fanno promesse da marinaio e barano, come per ultima ha fatto la Spagna, sullo stato di salute delle proprie banche? C’è da capirla, la cancelliera. Come fa il professor Spence: “La Germania è egoista noi confronti del resto d’Europa? Direi proprio di no. Sanno che anche loro dovranno fare grosse riforme, e che il loro modello di crescita dovrà cambiare. Forse la Merkel avrà anche problemi di comunicazione, ma la sua austerity è disegnata per creare competitività e crescita, non per punire”.
La trattativa è aperta e, si sa, chi ha più fiato conduce il gioco. In questo caso non c’è nessuno che sta meglio della Germania: con un afflusso di capitali da invidiare, tassi quasi allo zero, e all’1,4 sul lungo termine. La cancelliera ha fiato da vendere.
Solo un’eresia puo’ salvare l’euro
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