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Salvare l’euro? Salviamo l’Europa

Caro Direttore, si chiederà perché, invece di inviarle un articolo da collaboratore del giornale quale sono da 20 anni, le chiedo ospitalità con una lettera da “esterno”. “Salviamo l’euro” è da settimane in cima alle preoccupazioni del giornale e, letteralmente, in testa alle pagine: preoccupazione legittima, che gode di largo e autorevole consenso, e che rispetto. Ma ci sono pure, in Italia e fuori, correnti di pensiero, anch’esse convintamente europeiste, per cui la priorità è diversa: “Salvare l’Europa”. Mi piacerebbe che esse come tali venissero riconosciute e avessero il rilievo che meritano sul “nostro” giornale.
“Salvare l’euro” innanzitutto presuppone di rimediare ai difetti di progetto, che lo stesso Mario Monti ha riconosciuto. Il difetto più appariscente è l’assenza di strumenti per gestire gli squilibri di bilancia commerciale, che si formano anche per gli ostacoli frapposti dai sindacati alla mobilità del lavoro e che, oltre un certo limite, il sistema bancario non riesce a finanziare. E il difetto più grave è di imporre percorsi ardui al limite dell’impossibile al recupero di competitività, una volta che si siano accumulati grossi divari. Si pensava che l’euro avrebbe innescato un processo di convergenza, sintetizzato dai famosi parametri di Maastricht: ma quando, finita la “grande moderazione”, in tutto il mondo è aumentato il prezzo del rischio, lo spread ha iniziato a riflettere non più la sola differenza di liquidità, ma la differenza di rischio paese.
Per “salvare l’euro”, invece che ai difetti riscontrati, si “guarda oltre”: alla mutualizzazione del debito, in primo luogo. Ma questa, comunque confezionata, renderebbe inoperante il principio di no bail-out. Esso è la “clausola di chiusura” di questa costruzione imperniata su una banca centrale indipendente da tutti i governi, e solo se non ha mai eccezioni fa sì che la politica monetaria si trasmetta alle politiche fiscali. Strano modo di “salvare l’euro” quello di snaturarlo.
Oppure si “guarda oltre” verso l’unione fiscale. La visione degli Stati Uniti d’Europa ha animato grandi uomini, da Jean Monnet a Helmut Kohl, ma non è per dimenticanza che non c’è nei contratti dell’euro: è stata scartata. Dire oggi che l’euro in realtà era un “vettore” verso l’unione (Joshka Fischer), significa ammettere un inganno: i parlamenti non hanno votato nessun vettore. Dire oggi, di fronte ai sommovimenti in Grecia, alla disoccupazione in Spagna, alla sofferenza in Italia, che l’euro serviva a rendere inevitabile compiere il passo successivo, rivela un cinismo inaccettabile. L’Europa è nata per non sentir più parlare di levatrici della storia.
L’Europa, dunque. Il trattato di Roma e il mercato unico sono stati la rinascita dopo mezzo secolo di disastri, una costruzione aperta, inglobante, perché fondata sulla libertà del mercato a cui tutti partecipano volontariamente. In questa Europa gli eredi dei Boemi possono staccarsi pacificamente da quelli dei Moravi, gli Scozzesi perseguire la loro autonomia dagli inglesi, valloni e fiamminghi contrapporsi addirittura nella sua capitale. E crescere tutti insieme.
L’euro di Maastricht invece è vincolante, difficile entrarvi, costoso uscirne: chi, avendo adottato l’euro, lo abbandona, esce anche dall’Unione e non può più rientrarci. Prescrive la convergenza verso un unico modello di politiche di bilancio: ma non ci sono criteri oggettivi per stabilire quale è quella “giusta”, ci sono paesi con tasse altissime e bilanci in attivo (Svezia), e paesi in cui i cittadini finanziano con i propri risparmi debiti giganteschi (Giappone). Ci sono anche paesi, e noi lo sappiamo bene, che accettano il vincolo esterno per superare resistenze corporative. Bilancio non è solo contabilità, è istituzioni giuridiche, è struttura industriale, sociali, tradizioni: e ogni Paese vota le proprie. E se un Paese non converge, e le sanzioni minacciate o comminate non funzionano, che cosa si fa? Si mandano i commissari? E se i commissari non bastano?
Il rigore è una forza, la rigidità una debolezza. Unione monetaria non è sinonimo di rigidità: nel Gold standard, durato 70 anni, sopravvissuto a due guerre mondiali, l’adesione e la permanenza erano volontarie; negli Usa, gli stati possono fallire, e il governo federale non interviene; il piccolo comune di Leukerbad dimostra che anche nella Confederazione Svizzera gli enti locali possono fallire. A parte l’interesse delle banche, e fatto salvo il diritto dei Greci di decidere del proprio futuro, perché il default della Grecia dovrebbe rendere più probabile il nostro, e quindi far salire lo spread per le nostre emissioni?
Quando non ci sono ricette, serve il “ciò che non vogliamo”. Ci sono direzioni sicuramente sbagliate: l’ulteriore irrigidimento, la drammatizzazione emotiva (tra l’altro non esente da strumentalità), l’impropria evocazione di sensi di colpa per avanzare pretese risarcitorie. Lo slogan di Angela Merkel, «se cade l’euro, cade l’Europa», è utile per giocarselo al tavolo del negoziato, ma punta anch’esso nella direzione sbagliata. Infatti la causalità implicita nella frase è asimmetrica: un euro che funziona bene non trasforma l’Europa in una federazione; ma una rottura dell’euro potrebbe mettere in moto processi politici che renderebbero molto difficili ulteriori integrazioni. Fare tutto quanto è ragionevolmente immaginabile per evitarne la disintegrazione, non vuol dire pagare qualsiasi prezzo: ad esempio ridurre gli stimoli che dànno vita a una vibrante concorrenza tra modelli produttivi, anche all’interno dell’Europa; oppure mettere in piedi un’Europa di trasferimenti Nord Sud, pantografia dei nostri. “Salviamo l’Europa” viene prima di “salviamo l’euro”.

Fonte: Sole 24 Ore del 27 giugno 2012

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