Il professor Otmar Issing, già membro influente del direttivo della Bce responsabile degli studi, ha ripetuto al Financial Times una delle sue errate concezioni dei modi in cui funziona il meccanismo europeo, sostenendo che la Germania non può accettare di pagare i debiti altrui; questa tesi è stata forse reiterata dopo la saggia decisione di Draghi di avvertire il mercato che farà tutto quanto necessario perché la moneta europea non venga travolta dalla speculazione e che ciò basterà per garantire l’irreversibilità dell’euro.
La posizione di Issing è frutto di un duplice pregiudizio: il primo che gli interventi della Banca centrale europea o dei fondi salva-Stati e salva-banche significhino che i titoli pubblici o i debiti bancari non debbano essere rimborsati, la qual cosa non è scritta da nessuna parte, anche ammesso che sia stata pensata.
Il secondo che il meccanismo dell’area euro funzioni bene così com’è, mentre è noto che esso non è “ottimale”.
Per respingere il primo pregiudizio non sono necessarie molte parole: esso non ha fondamento. Stupisce che qualcuno possa accreditarlo come rilevante. Sul secondo, invece, si può obiettare che un’area non ottimale induce movimenti monetari e finanziari tra Paesi distorsivi della concorrenza a causa dell’irreversibilità dei rapporti di cambio; ciò non accadeva nel regime di Bretton Woods, dove i cambi, di fronte a squilibri fondamentali, erano aggiustabili seguendo procedure precise in ambito dell’Fmi.
Se la Germania non ricicla i fondi che riceve sotto la spinta della paura che l’euro collassi, la Bce è costretta a creare più base monetaria suscitando preoccupazioni di future bolle speculative o, se si preferisce, più inflazione, dando adito alle preoccupazioni di Issing; ma la Bce deve farlo perché la Germania la pensa come lui, generando un circolo vizioso.
Il problema di fondo dell’euro, che Draghi non può risolvere (e, invero, non ha mai richiesto di farlo), è che ha messo insieme un’area affetta da divari profondi nella produttività (dualismi) che non sono solo legati a diverse culture, ma anche a diverse strutture economiche pubbliche e private che non possono essere corrette obbligando a praticare politiche di rigore, tanto meno se basate su aumenti della pressione fiscale. Il processo di convergenza è lungo, ma il lungo cammino inizia con il primo passo che non stiamo intraprendendo. Come ci insegna la nuova sortita di Issing, più che una politica, manca una diagnosi corretta del problema da affrontare.
Il pregiudizio di Issing
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