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Il Nobel che servirebbe alla Ue: quello alla sovranita’

L’idea di un’Europa unita nasce già dopo la “orrenda carneficina” della prima guerra mondiale. Nel 1922 Richard Coudenhowe-Kalongi lancia il suo appello, l’anno seguente pubblica Paneuropa, libro che ispira il messaggio di Aristide Briand alla Società delle Nazioni a Ginevra nel 1925.
Perché il progetto negli anni 20 non riesce, e negli anni 50 sì? Non erano bastate Sedan e Verdun, ci voleva il tentativo hitleriano di unificazione europea, ci volevano Coventry e Dresda, perché l’idea di un’altra guerra diventasse intollerabile. Ci voleva Auschwitz perché diventasse impensabile. All’Europa è stato conferito il Nobel: ma è stata l’Unione Europea a garantire la pace, o è stata la volontà di pace a permettere la creazione dell’Unione Europea? L’Europa è frutto della visione dei membri di alcune élite o raccoglie il sentimento dei cittadini dei Paesi d’Europa? Le contrapposizioni e le vicende che hanno segnato il cammino dell’Europa, dal Trattato istitutivo della Comunità del carbone e acciaio fino alla crisi dell’euro, derivano da questa ambivalenza: che dopo il Trattato di Roma diventa quella tra principio tecnocratico, alla base di Commissione Europea e poi di Bce, e principio di rappresentanza, radicato nel Consiglio d’Europa.
Il problema democratico non è un “inconveniente” manifestatosi in corso d’opera: il nation building è un dato di progetto della costruzione europea. Era il 1952, quando Jean Monnet dichiarava davanti all’Onu senza mezzi termini che «il popolo europeo deve essere condotto verso un superstato senza che si renda conto di quello che gli succede». Così si vorrà definire anche una nuova cultura europea, e una corrispondente identità, diversa dai modelli del passato che pur la costituiscono. Ma sia i tentativi di definirne i principi fondanti, sia quelli di delimitarne i confini geografici finiscono per creare nuovi problemi. Si prova a scrivere i principi di una costituzione europea, ne escono rafforzati i nazionalismi. Le immigrazioni pongono sfide enormi. Il riconoscimento della Croazia da parte della Germania scatena una guerra in Europa, ritornano le pulizie etniche, e per l’incapacità di impedirle è scritta una delle pagine più vergognose della storia recente. La vicenda libica affossa nel ridicolo il soft power europeo.
La moneta comune è un potente strumento per unificare lo spazio di libertà economica dell’Europa. Ma siccome così i disavanzi della bilancia dei pagamenti non sono più finanziati da capitali privati bensì intermediati dalla Bce, quando dopo un lungo periodo di tassi uniformemente bassi, i mercati si fanno attenti a valutare il premio al rischio, diventa evidente che un’unione monetaria in cui un Paese esporta capitali e gli altri lo importano non può durare. La Ue si fonda sul principio dello Stato di diritto: e i trattati vietano esplicitamente il bail out, non prevedono la reversibilità dell’adesione all’euro. Così, quando Angela Merkel visita Atene, si rivedono svastiche e falò di bandiere tedesche. Il riconoscimento del Nobel deve essere l’occasione per riflettere sul problema democratico in Europa. Gli Stati europei, nati dalle guerre di religione, unificati politicamente nell’800, ampliatisi nel ’900 a includere tutti i cittadini, oggi devono affrontare la sfida dell’economia. La concorrenza ha dimensioni globali, ma è a livello nazionale che nascono i maggiori problemi: lì vanno risolti. In Italia, il debito che nel 1970 era un terzo del Pil, nel decennio è cresciuto di 20 punti, di ben 40 in quello successivo: abbiamo comperato la pace sociale accettando di perdere sovranità verso i creditori.
E quanto alle riforme per non perdere competitività, ancora oggi, con un governo che gode di un vastissimo sostegno parlamentare, quelle che non sono nate stentate già si pensa a quando abolirle. Nei cittadini è diffuso il sentimento di impotenza, di aver perso sovranità, verso la finanza degli spread e gli organismi comunitari. Alla sensazione di non contare più niente, non si può rispondere offrendo nuove forme di rappresentanza a Strasburgo, o l’elezione diretta del presidente a Bruxelles. È a livello nazionale che si trovano le energie e le volontà necessarie per superare l’impasse. Suscitarle e mobilitarle è il compito della politica. Non reclamando diritti ad aiuti o a remissione dei debiti, né eccitando risentimenti e accuse, bensì far leva sui sentimenti di identità e “patriottismo”. E se le istituzioni dànno così miserevole mostra di sé, ricostruirle: a esse non esiste surrogato.

Fonte: Sole 24 Ore del 17 ottobre 2012

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