A dieci mesi dalle prossime elezioni federali, la cancelliera Angela Merkel deve cercare un modo per spiegare ai suoi elettori per quale ragione l’Europa vada difesa. Il primo argomento a cui ha pensato è di sottolineare che i singoli Paesi europei isolati non conteranno più nulla nel mondo con l’avanzare dei Paesi emergenti. Il secondo è che la Germania è un Paese che guadagna più di altri dall’euro.
Il terzo è che il costo di un fallimento della moneta unica sarebbe catastrofico. Il quarto richiede la riscoperta dello spirito anti-nazionalista della Germania del dopoguerra.
Nessuna di queste spiegazioni è un colpo da knock out per chi si presenta al voto. Alcune sono addirittura non credibili dopo anni di propaganda opposta. La cancelliera dovrebbe spiegare che l’analisi della crisi è stata sbagliata fin dall’inizio e che Berlino ha in questo più responsabilità di altri. Ma non lo farà. Questo infatti è l’argomento che userà lo sfidante della cancelliera, il socialdemocratico Peer Steinbrück, per altro coautore degli sbagli nel 2008.
La previsione di una possibile recessione anche in Germania a cavallo dell’anno non facilita le cose.
Non è il caso di provare compiacimento (o Schadenfreude) sperando che il mal comune faccia cadere le recriminazioni e i sospetti reciproci e convinca la Bundesbank e i suoi bracci politici ad abbandonare sabotaggi ed incertezze. Purtroppo è più probabile che nel dibattito tedesco l’euro e l’Europa vengano usati ancor più come bersaglio, come è avvenuto negli ultimi anni.
La caduta dell’economia tedesca è d’altronde direttamente legata alla crisi europea. Il clima di fiducia nelle imprese tedesche è diventato improvvisamente negativo nel luglio 2011 con il contagio italiano, mesi prima che gli indicatori economici peggiorassero. Nel 2012 gli ordini alle imprese tedesche dai partner dell’euro sono scesi del 20% rispetto al 2007. La Germania ha spostato ulteriormente il bacino commerciale verso altri mercati e l’area dell’euro conta ora solo per il 35% dell’export, cioè 10 punti in meno in solo 5 anni e solo il doppio dell’Asia. Tuttavia l’Europa conta per l’economia di Berlino più di quanto non dicano i dati del commercio. Oltre il 65% degli investimenti esteri delle imprese tedesche vanno nella Ue, e il loro valore è a rischio se l’euro si rompe.
Inoltre una parte importante e sottaciuta del successo economico tedesco sta nel reddito che le banche tedesche hanno ricavato investendo il surplus di risparmio della Germania in Paesi della stessa area valutaria, ma con titoli a più alto rendimento.
Secondo i miei calcoli si è trattato di un trasferimento di reddito annuo di almeno lo 0.75% del Pil dalla periferia alla Germania dal 2002 in poi. Ora questa fonte di reddito che le banche trasferivano all’economia è scomparsa. Il canale dei profitti si sta inaridendo e le imprese tedesche hanno ridotto gli investimenti.
Entro sei mesi se ne sentiranno gli effetti sull’occupazione e per molti cittadini tedeschi si tratterà di uno shock. Basta pensare che gli stipendi tra 2011 e 2012 sono aumentati in media di circa il 7% mentre scendevano nei Paesi vicini. Nessuna sorpresa che in questi due anni i consumi privati abbiano compensato il calo degli investimenti finora. Ma che cosa succederà tra sei mesi, con ulteriori cali dell’export e con un bilancio pubblico in surplus e quindi anch’esso restrittivo? Saremo allora proprio alla vigilia delle elezioni federali. Angela Merkel ha certamente sangue freddo e una speciale capacità nel portare negoziati a cinque minuti oltre la mezzanotte. Tuttavia questa partita la sta giocando contro se stessa.
L’occasione per cambiare le cose viene dalla Grecia, la cui possibilità di restare nell’euro va decisa in tempi brevi. Ma sarebbe necessario raccontare una storia diversa della crisi greca rispetto a quella che abbiamo sentito finora. E cioè che parliamo di un Paese che sotto la guida della troika ha approvato 248 nuove leggi in 24 mesi, una ogni tre giorni. Che ha visto gli organismi internazionali sbagliare tutte le previsioni sull’impatto recessivo delle riforme. Che ha visto azzerare gli investimenti quanto più veniva messa in dubbio la sua permanenza nell’euro. Un Paese dove perfino i giudici scioperano, benché sia loro impedito dalla Costituzione su cui hanno giurato e dove il sistema di esazione fiscale dovrebbe essere azzerato e ricostruito a costo di rinunciare alle tasse per sei mesi. Un Paese che sta vedendo i riformisti sparire dal Parlamento. Che vede un partito di estrema sinistra al 37% nei sondaggi cancellare i socialdemocratici e uno di destra nazionalista violenta ormai al 14% come terzo partito.
Tutti gli argomenti per spiegare ai tedeschi per quale ragione la Germania deve smettere di frenare la soluzione della crisi dallo spirito anti-nazionalista del dopoguerra, fino al rischio catastrofico della fine dell’euro – ritroverebbero finalmente un significato se raccontati spiegando con sincerità il dramma greco, con quel senso delle sorti comuni dell’Europa che Konrad Adenauer e Helmut Kohl chiamavano comunità di destini. Oppure un giorno, mentre discuteremo del rischio di inflazione, si scoprirà che il contagio oltre che economico diventerà politico.
Se il contagio passa a Berlino
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