Dieci giorni fa il Consiglio europeo non è riuscito a trovare l’ accordo sul bilancio dell’ Unione europea per il nuovo settennio 2014-2020 e ha rinviato le decisioni all’ anno prossimo. I capi di stato e di governo sono tornati a casa mostrando i bicipiti (“Nessun cedimento! Siamo pronti a mettere il veto per la difesa degli interessi nazionali!”); i giornalisti hanno annunciato la fine della solidarietà europea e, dall’ altra parte, lo stop, finalmente, alle dissipazioni e ai salari sfrenati degli euro-burocrati; il Regno Unito punta a “riportare a casa i suoi soldi”. Ma quale fosse veramente la posta in gioco forse non è molto chiaro all’ opinione pubblica: provo a dissipare la nebbia. La prima constatazione è che non è successo e non succederà nulla di molto importante per l’ economia europea, perché il bilancio dell’ Unione rappresenta l’ uno per cento del Pil aggregato dell’ area e, rispetto a esso, i margini di variazione possibili nel negoziato sono meno del 10 per cento del totale, ovvero meno dell’ uno per mille dell’ economia europea; né si possono attendere effetti economici significativi a seguito delle modeste variazioni di composizione della spesa che ne possono derivare, in un sistema che resta fortemente inerziale. Perché, allora, tante facce feroci e tanto atteggiarsi a eroici difensori dell’ interesse nazionale? segue a pagina 10 segue dalla prima La risposta è semplice: dietro la battaglia sui saldi netti di ciascun paese si nasconde la resistenza degli interessi settoriali per mantenere le quote di una torta che tende a diminuire. Quel che forse è meno chiaro è che il contrasto degli interessi si verifica all’ interno dei paesi membri dell’ Unione quanto e più che tra i paesi. Se si guardano insieme i saldi netti e i contributi lordi pagati dei paesi membri (dati del 2011, ma non c’ è gran variazione tra gli anni) si rileva che tra i creditori netti (quelli che pagano più di quel che ricevono), la Germania, il maggior contributore, manda a Bruxelles ogni anno quasi 20 miliardi di euro e ne riceve indietro quasi 11, con un saldo creditore di nove miliardi; la Francia ne manda 18 e ne riceve 12, con un saldo creditore di 6; l’ Italia ne manda 14 e ne riceve indietro 8, con un saldo creditore di poco meno di 6 miliardi. Invece la Spagna riceve più denaro di quanto ne mandi: paga 10 e riceve indietro 13. Quello che emerge è che per tutti i maggiori paesi il saldo è una frazione dei flussi lordi nelle due direzioni: come a dire che il bilancio dell’ Unione è anzitutto un meccanismo per redistribuire denaro all’ interno dei paesi membri, nascondendone il costo ai contribuenti nazionali, solo in seconda istanza anche un meccanismo per distribuire risorse dai paesi più prosperi a quelli meno prosperi. In valore assoluto, i maggiori recipienti di risorse comunitarie sono la Germania, la Francia e l’ Italia; questi soldi vanno in massima parte all’ agricoltura (40 per cento, di cui un quarto alla sola Francia), un 2 per cento della popolazione che certo che non è il massimo della modernità e dell’ innovazione; e ai fondi strutturali e di coesione (oltre il 30 per cento), i quali, almeno in Italia, invece che crescita hanno prodotto dipendenza e sottosviluppo endemico. Dunque, chi si sbraccia a Bruxelles a chiedere maggiori spese, sta contando sul fatto che i contribuenti non se ne accorgano, mentre sa per certo che i destinatari delle spese lo sanno fin troppo bene e, naturalmente, ricompenseranno i valorosi combattenti con il loro voto. Nelle pieghe di quel bilancio, c’ è sempre qualche bravo buon lobbista che riesce a piazzare il colpo da un paio di miliardi di euro; c’ è persino qualche buona spesa, ad esempio per la ricerca o qualche infrastruttura di vero valore europeo. Ma sempre fuori da una visione d’ insieme del bilancio al servizio degli interessi generali dell’ Unione. Il motivo per cui paesi come la Germania o l’ Inghilterra non ci stanno più è che, con l’ allargarsi del saldo netto creditore, il costo per la generalità dei loro contribuenti è diventato più visibile, mentre una quota crescente dei benefici vanno altrove, a favore degli agricoltori francesi o del Mezzogiorno d’ Italia. Che fosse non solo necessario, ma ormai urgente cambiare lo sapevamo bene: era tutto già ben scritto in un rapporto commissionato dieci anni fa da Prodi, allora presidente della Commissione europea, a un gruppo di studio diretto dal Professor Sapir, il quale aveva raccomandato di ridimensionare rapidamente la spesa agricola e riformare drasticamente gli altri capitoli di spesa, concentrando le risorse verso impieghi ‘ di valore aggiunto europeo’ capaci di stimolare la crescita e la produttività. Purtroppo, hanno poi prevalso l’ inerzia e gli interessi costituiti. Si è anche rinunciato ad allineare il periodo del bilancio comunitario con quello delle legislature europee, cosa che avrebbe almeno consentito di fare del bilancio comunitario un tema da dibattere in pubblico in vista delle elezioni europee, invece che solo un opaco negoziato tra gli stati. Dunque, non può sorprendere se la legittimità del bilancio comunitario s’ indebolisce, a ogni giro di negoziato e se, con essa, calano inesorabilmente anche le risorse. Non deve essere un caso neanche il fatto che l’ eurozona, ancora in cerca di soluzioni stabili ai suoi problemi di governance, stia incominciando a pensare a un suo bilancio separato, del quale sono comparse le prime ipotesi nel negoziato in corso sulla Road Map. Dunque, non c’ è molto da preoccuparsi del bilancio dell’ Unione; da esso non verranno molti benefici – in particolare non sono tali i pochi soldi in più che riusciremo a strappare nel quadro della generale riduzione delle risorse, che a me pare obbiettivamente opportuna – né grandi danni. Non è lì, per grossa colpa della Commissione, del Parlamento europeo, e dei Capi di Stato e di Governo che hanno preferito accomodare gli interessi ristretti, che si gioca il futuro dell’ Unione europea.
Fonte: Affari e Finanza del 3 dicembre 2012Quanto costa il disaccordo sul bilancio europeo
L'autore: Stefano Micossi
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