Forse la Commissione Ue dovrà adottare un metro un po’ più lungo dei normali cento centimetri per misurare il deficit italiano e riconoscere che è rimasto sotto il 3 per cento. Ma non può rovinare la festa adesso. Dopo anni di grandi sacrifici, l’Italia deve riuscire a chiudere la procedura d’infrazione per deficit eccessivo. I sacrifici sono stati fatti nelle condizioni più difficili, fino a chiedersi se un gioco che giorno dopo giorno si faceva sempre più duro valesse una candela che invece si scioglieva sotto i nostri occhi. Forse non capiamo nemmeno noi che quello che l’Italia è riuscita a fare ha un’importanza vitale per tutta l’area euro, anche se paradossalmente ha poco a che fare con le politiche di bilancio.
Il rigore dei conti pubblici era visto come la soluzione della recessione stessa quando, tra il 2010 e il 2011, la crisi europea, sull’emozione dei conti greci inaffidabili, era considerata prima di tutto un problema di finanza pubblica. La credibilità fiscale avrebbe convinto gli investitori a finanziare ancora il debito italiano a tassi normali. Sappiamo ora che non era sufficiente.
I danni della crisi sono stati troppo profondi, le ripercussioni nel sistema bancario hanno fatto sparire il credito alle imprese. Fin dal 2007 i più lungimiranti avevano previsto un decennio giapponese per l’Europa: banche intasate di crediti cattivi, poco inclini a prestare denaro. La sindrome giapponese prevedeva assenza di crescita e un lungo periodo di disinflazione. Non era servito a Tokyo avere un debito altissimo per uscire dalla stagnazione.
La situazione europea non è molto diversa da quella giapponese. L’inflazione nell’area euro è scesa in un anno dal 2,6% all’1,2 di aprile. Risalirà per pochi mesi, ma l’indice dei prezzi dei servizi fa prevedere che scenderà sotto l’1% entro il 2013, come già avviene in un terzo dei 17 Paesi. In Grecia i prezzi sono negativi. In Germania, il Paese che dovrebbe avere un livello dei prezzi più alto della media per distribuire un po’ di crescita all’esterno, i prezzi sono all’1,1%, cioè sotto la media. Uno studio condotto a Brookings calcola che per avere un riequilibrio non deflazionistico nell’area euro Berlino dovrebbe avere un aumento dei prezzi annui di oltre il 5 per cento. Stiamo andando nella direzione opposta.
La ragione della disinflazione è che è stata perseguita come la soluzione di una crisi che dopo il 2011 era considerata non più solo fiscale, ma come una crisi di competitività. I Paesi in difficoltà avrebbero dovuto procedere a una svalutazione interna, cioè a ridurre il livello dei salari, attraverso riforme strutturali. La rigidità dei mercati e la difficoltà di fare riforme in emergenza ha fatto sì che il calo del costo del lavoro avvenisse attraverso la disoccupazione e che ciò aggravasse la recessione. Ora l’Fmi stima che il Pil dell’area sia inferiore del 3% a quello che potrebbe essere.
A differenza del Giappone, l’area euro non è un’entità politica unica, capace di distribuire al proprio interno in modo democratico i costi e i benefici in ragione delle preferenze dei propri cittadini. Per questa ragione si è posta seri limiti nell’utilizzo delle politiche di bilancio. Anche la politica monetaria tuttavia ha effetti redistributivi molto forti e la Bce non ha come controparte un governo bensì 17, ognuno dei quali diffidente degli altri e con il dovere di difendere interessi nazionali.
La Bce ha come unico mandato la stabilità dei prezzi, con un obiettivo di medio termine vicino al 2 per cento. L’economista Anjel Ubide ha calcolato che in base al rendimento del Bund l’inflazione attesa in Germania nei prossimi cinque anni è dell’1,2% e osserva che non è immaginabile che l’inflazione nel resto dell’area euro salga invece al 3%, portando la media verso l’obiettivo della Bce, senza riaprire gravi squilibri nelle bilance dei pagamenti. Non sarà facile per la Bce gestire una reflazione nell’area euro che passa da un aumento dei prezzi proprio in Germania, il Paese più diffidente nei confronti dell’inflazione e delle politiche attive. Ma aspettare che i prezzi scendano verso lo zero per poter agire al riparo dalle critiche è molto rischioso.
In un seminario a Washington Peter Praet della Bce ha ammesso che la Banca vede venire i rischi alla stabilità più da una discesa dei prezzi che da un loro aumento. La quantità di moneta cresce a un ritmo del 2% contro un obiettivo del 5 per cento. Il credito alle imprese nell’area euro scende senza sosta da un anno. Le opzioni che proteggono dalla discesa dei prezzi costano molto più di quelle che proteggono dall’inflazione. Da sei mesi le banche riducono i loro bilanci, cosa che non avevano fatto nei nove mesi precedenti. In un certo senso la crisi del credito è una crisi nuova e incontrastata.
La Bce dovrebbe essere libera di guardare al medio termine, accettando anche i rischi di sbagliare, come avviene quando si stima il futuro, proprio come fanno le altre banche centrali. In tutto il resto del mondo le banche centrali stanno acquistando titoli privati e pubblici, azzerando i tassi d’interesse, creando programmi di credito specifici o operazioni di allentamento quantitativo (anche nella Ue).
La Bce non deve soprattutto farsi frenare dal rischio di azzardo morale, cioè dal timore che i governi non facciano abbastanza per la disciplina fiscale e per le riforme strutturali. In fondo è proprio questo il grande segnale che l’Italia ha dato a tutti gli altri Paesi: nonostante le enormi difficoltà, abbiamo rispettato gli impegni sul disavanzo pubblico. Non c’è stato azzardo morale: abbiamo pagato più tasse del necessario e stretto i denti.
Tutti sanno che la cautela della Bce ha a che fare con le pressioni della Bundesbank e con la sfiducia dei banchieri centrali nei governi. Forse la Bce con la sua cautela è anche davvero l’unica banca centrale al mondo a non creare rischi e futura instabilità. Ma se questo non impedisse all’economia europea di piegarsi su se stessa, o anzi lo favorisse, allora l’elogio ex post alla cautela avrebbe la stessa capacità consolatoria della scritta su una lapide.
La lezione italiana che l’Europa e la Bce non devono ignorare
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