Il confronto televisivo di domenica tra i due sfidanti alla cancelleria ha rivelato uno dei caratteri meno evidenti ma più importanti di Angela Merkel: un’intelligenza forte ma ancorata alla rassicurante piattezza dei ragionamenti, riluttante ad approfondire le cause dei fatti o a ricercarne la responsabilità. Una «unidimensionalità» che ha purtroppo segnato negativamente anche il suo ruolo nella crisi europea.
Un primo indizio era giunto un mese esatto prima del voto, il 22 agosto scorso in occasione della prima visita ufficiale di un cancelliere tedesco a Dachau. Un romanzo tedesco pubblicato nel 2001 descriveva una visita a un campo di concentramento con una sola frase lunga dieci pagine prive di interruzioni, tanto era impossibile girare lo sguardo o tirare il respiro. Prima di diventare un simbolo delle atrocità naziste, Dachau era un paesaggio idilliaco che attraeva pittori come Fritz von Uhde e Adolph Hoelzel, ma da 70 anni il campo poco lontano da Monaco suscita solo, nelle parole accorate della cancelliera Merkel, «emozioni che mi riempiono di tristezza e vergogna».
Secondo le cronache, uscita dal campo di concentramento, l’automobile della cancelliera ha percorso il tragitto fino al palco elettorale allestito a Monaco dalla Csu in pochissimi minuti. Una folla festante l’attendeva sotto una tenda e Merkel, indossando lo stesso completo nero che aveva a Dachau, è passata dalle ceneri dei forni, alla schiuma della birra; dalla tristezza all’ebbrezza, dalla vergogna alla campagna, nel giro di un nulla. Verdi e socialdemocratici hanno definito moralmente grave l’episodio. Merkel non ha risposto.
Non era il campo di sterminio a lasciarla indifferente, dicono i suoi esegeti, ma le folle e i comizi. E lo si vede. La sua recitazione pubblica ha un repertorio minimo, sul palco sta retta con le mani intrecciate sul davanti, quando parla i movimenti sono solo verticali, la mimica facciale è incompleta. Ha un carattere forte e sensibile al tempo stesso, sa dare risposte abrasive ma non cattive. Quello che lascia trasparire è la solida consapevolezza della propria lucidità. Il mondo in cui è cresciuta era la pianura brandeburghese limitata da un Muro.
Lei vuole capire, un passaggio dopo l’altro, problema per problema e trovare soluzioni lineari. Ma il mondo non è né piatto, né lineare.
Che non siano le grandi visioni ad appassionarla lo hanno capito presto anche nel suo partito. Le tre anime che rendevano vitale il dibattito interno della Cdu di Helmut Kohl l’anima nazional-conservatrice, quella cristiano-sociale e quella liberista sono scomparse dopo che Merkel ne ha soffocato gli esponenti. Il partito si è trasformato in un’unica macchina elettorale per garantire la vittoria della cancelliera. La vendita dell’anima in cambio della preservazione non è un inedito nella cultura tedesca. Che cosa importa se per aumentare i consensi si indossano gli abiti ideologici degli avversari: quote rosa, pacifismo e uscita dal nucleare erano temi dei verdi, mentre il calmiere agli affitti e il salario minimo erano nel programma dei socialdemocratici. Non ci sono molte idee irrinunciabili o originali nella visione della cancelliera. In fondo le maggiori decisioni del suo governo sono state prese sulla scia di eventi esterni: la crisi europea ovviamente, ma anche l’incidente di Fukushima che ha dettato la sorprendente uscita dal nucleare.
Il programma della Cdu riflette infatti una visione piuttosto limitata della realtà. Il futuro che il testo del programma promette è solo quello digitale, per fare che cosa non è spiegato. Anche in questo caso a dettare il tema è un fenomeno esterno: l’autonoma trasformazione dell’industria verso la digitalizzazione dei processi, che farà coincidere produzioni di massa e servizio personalizzato al cliente. Un’evoluzione che darà altri dieci, forse venti anni di vantaggio competitivo della produzione tedesca su quella degli altri. Quindi un surplus della bilancia dei pagamenti ancora più alto a danno d’altri. Competitività e riduzione dei debiti sono la ricetta della superiorità tedesca.
La competitività spiega tutto ed è ragione di se stessa. Nel grafico si vede la variazione della produttività (Total Factor Productivity) tra il ’98 e il 2008, come indicatore della capacità dei paesi europei di fare riforme. La classifica mostra come i paesi dell’euro-area più in difficoltà siano gli stessi in cui la politica non è capace di realizzare riforme utili alla competitività. Questa logica è diventata prevalente per Merkel. Ma in questa visione unidimensionale della politica, i paesi in difficoltà hanno inevitabilmente meno capacità politica e quindi meno valore. È nota la battuta berlinese: «Volevamo fare l’euro con un marco e un franco e ci siamo trovati anche quindici silvio». L’azione della Cdu si basa infatti su un pregiudizio di inaffidabilità politica dei partner. Tutti gli aiuti sono condizionati all’adempimento di programmi di aggiustamento e riforma, mirati a solidità finanziaria e competitività, imposti ai paesi da autorità esterne; gli aiuti inoltre sono erogati solo quando tutta l’euro-area è in pericolo e vanno limitati quantitativamente per non deresponsabilizzare il paese assistito, ma anzi tenerlo sotto la pressione educativa dei mercati. La responsabilizzazione uno dei principi fondanti dell’economia di mercato va portata in primo piano attraverso le regole di bail-in che impongono ai creditori privati le perdite di banche e stati. Anche se questi principi corrispondono a orientamenti ideologici più vicini ai liberali la Cdu vorrebbe almeno estenderli a un’Europa integrata Berlino li ha messi al sicuro con il potere di veto su tutte le decisioni fondamentali (in particolare sui fondi di assistenza) che vanno prese o all’unanimità o con maggioranze che garantiscono alla Germania un voto decisivo. Inevitabilmente prevale un criterio intergovernativo di decisione anziché comunitario. Questo almeno fino a quando tutti i paesi dell’euro-area non saranno ugualmente competitivi e privi di debiti.
C’è una tradizione pietista nell’esercizio educativo degli altri attraverso severi controlli, ma ci sono anche la prevalenza di una logica economica e il vuoto di passione per la politica che affliggono il progetto europeo. È in fondo il desiderato ribaltamento della visione di Werner Sombart secondo cui la Germania si distingueva dalla cultura inglese per la quale i mercanti prevalgono sugli eroi. Ma c’è anche la maledizione temuta da Max Weber: cedere il passo al romanticismo dei numeri da parte di un popolo che il sociologo vedeva invece incline alla metafisica, alla pedagogia e alla musica. «Non è un popolo orientato alla politica, ma alla morale». Nell’era Merkel è la stabilità dei propri interessi a coincidere con l’esercizio del potere e a prevalere sulla morale. E questo genere di passione fredda piace agli elettori.
La questione dei valori viene soffocata dalla relativa sicurezza dell’economia tedesca rispetto a quelle che la circondano: relativismo economico appunto. Progressivamente questa lettura dei fatti ha creato un senso di estraneità ingiustificato dalla crisi e dalle sue origini. La convinzione di aver fatto tutto giusto tocca livelli paradossali. Nel piano di riforma nazionale presentato alla Commissione europea quest’anno, il governo tedesco commenta che tutte le riforme necessarie sono state compiute tranne forse la liberalizzazione della professione di spazzacamino. A Bruxelles, dove si aspetta e spera un rilancio della domanda interna tedesca attraverso le riforme del mercato dei servizi, qualcuno ha pensato che Angela Merkel, convinta di aver messo in ordine ogni cosa schioccando le dita, fosse ormai affetta dalla sindrome di Mary Poppins.
Una forma di miopia che corrisponde a un sentimento di Innerlichkeit, di sguardo rivolto al proprio interno, che fa parte della cultura tedesca. Non c’è campo in cui questo sentimento di introversione sia più evidente che nella politica estera dove Berlino spicca per mancanza di condivisione di responsabilità con la comunità internazionale. Ma anche in Europa, circondata com’è da leader velleitari, deboli o incoerenti, Berlino accetta la propria diversità come una coerenza di fatto.
Merkel, solitaria, forte, intelligente, sospettosa, refrattaria ad aprirsi perfino con i suoi collaboratori, è il leader ideale per questa nuova introversione tedesca. Un autocompiacimento che però rischia di rendere i nuovi mercanti solo una versione prosaica dei vecchi eroi guerrieri.
Merkel rischia la sindrome di Mary Poppins
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