• giovedì , 21 Novembre 2024

Il grande gioco

Con la puntualità del Natale riecco le privatizzazioni. E si riapre la giostra dei miliardi su Eni, Enel e tutti gli altri enti da vendere a fettine pur di fare cassa. Chi ci guadagna.
C’è la coda in via Goito davanti al portone della Cdp (Cassa depositi e prestiti) che guarda il fianco destro del Mef (Ministero dell’economia e finanze). Non più, come un tempo, sindaci in cerca di prestiti facili per spendere, spandere e acquistare consensi. No, questa volta sono giovanotti in gessato blu e cravatte gialle, scarpe diplomat, zaini in pelle al posto delle cartelle ormai démodé. S’è sparsa la voce che il governo Letta faccia ripartire l’onda lunga delle privatizzazioni, rimasta sottoterra come un fiume carsico per quasi vent’anni. E loro sono là, pronti a offrire i propri servigi. Può darsi che non succeda proprio nulla, ma basta la parola ad aguzzare l’appetito. I loro padri e fratelli maggiori negli anni Novanta portarono a casa un bel carniere: 5.600 miliardi di lire (circa 2,89 miliardi di euro) pari al 3 per cento dei valori lordi, per vendere l’intero patrimonio dell’Iri, pacchetti consistenti dell’Eni, dell’Enel, di Finmeccanica. Il conto lo ha fatto Mediobanca e potrebbe salire ancora visto che la privatizzazione delle banche pubbliche è stata più lunga e complessa. Piatto ricco mi ci ficco.
La pietanza oggi è più ristretta, anche se per palati fini, un po’ da nouvelle cuisine. Non si sa ancora come andranno in porto, tuttavia le banche d’affari possono guadagnare in più modi: offrendo una consulenza per la quale c’è una parcella determinata a seconda della difficoltà dell’opera richiesta; gestendo le operazioni (fusioni, acquisizioni, collocamento in Borsa, vendita di quote); investendo esse stesse, cioè acquistando pacchetti azionari che poi rivendono quando ritengono di poter ricavare un buon guadagno. Il loro potere aumenta quando detengono un numero consistente di azioni, obbligazioni, titoli di stato, contratti derivati. E si arriva persino al punto che i governi, con le spalle al muro, siano spinti a tutelarsi concedendo loro sostegni e favori, come sta accadendo in Italia.
Una paginetta collegata alla Legge di stabilità, infatti, “autorizza la prestazione di garanzie bilaterali per gestire i rischi derivanti da operazioni in derivati”: sembra un gioco di parole, ma muove miliardi di euro. Il Tesoro ha acceso dagli anni Novanta contratti derivati per circa 160 miliardi con Imi (Intesa Sanpaolo), Bnp Paribas, Citigroup, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, Nomura, Rbs, Ubs, Unicredit. Per lo più si sono scambiati prestiti a interessi variabili con interessi fissi, per coprirsi dal rischio volatilità sui mercati. I tassi scesi a zero, nel frattempo, hanno provocato perdite consistenti. Una dozzina di derivati pari a 31 miliardi di euro ha generato un buco di otto miliardi. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, con il nuovo dispositivo, consente di congelare le perdite collocandole su conti ad hoc. Nel caso l’Italia andasse in default, le banche titolari di quelle garanzie le incasserebbero, senza mettersi in coda con i detentori di Btp (in gran parte italiani, perché il debito in mani estere è sceso negli ultimi due anni dal 50 al 30 per cento). Anche il Tesoro si tutela chiedendo di aprire un conto analogo e versare dei collaterali in caso di perdite. Ma basta guardare il rating dell’Italia (BBB+) e quello di JP Morgan (A3) per capire che è una eventualità puramente teorica. Hanno torto, allora, i populisti quando, da destra e da sinistra, gridano che gira e rigira le banche d’affari non ci rimettono mai, tanto meno quelle straniere?
Viene in mente la storia, le battaglie finanziarie tra i Rothschild e i fratelli Pereire per le ferrovie italiane, strumenti a loro volta di un conflitto più ampio per la egemonia finanziaria in Europa. Ricorda Gino Luzzatto ne “L’economia italiana dal 1861 al 1894”, che “l’Italia è stata fatta col capitale straniero”. Ciò è vero per le infrastrutture (luce, gas, acquedotti oltre alle strade ferrate) con una forte competizione tra francesi, austriaci, inglesi, per le banche (francesi e tedeschi soprattutto), per le privatizzazioni di allora (la vendita dei beni demaniali era in mano alla Banca Anglo-Italiana costituita esclusivamente con capitali inglesi). Ma vale soprattutto per il debito pubblico chiamato allora rendita e collocato ampiamente sui mercati europei dove veniva scambiato dai grandi argentieri come i Rothschild o gli Hambro. Così, quando nel 1866 il bisogno di credito aumenta anche perché il giovane regno si getta in un’altra avventura bellica contro l’Austria (la Terza guerra d’indipendenza), alla Borsa di Parigi scoppia una crisi che mette a repentaglio la lira. Il ministro delle Finanze Antonio Scialoja, è costretto ad annunciare alle Camere, con le lacrime agli occhi ricordano le cronache del tempo, la fine della convertibilità. Nell’impossibilità di emettere debito sul mercato, viene stampata carta moneta a corso forzoso per coprire il disavanzo. Ogni riferimento con la situazione attuale e la questione dell’euro, non è puramente casuale.
La lira tenta più volte di rientrare nel concerto delle valute internazionali, ma ci riesce pienamente solo nel 1902, quando altre banche, quelle tedesche, avranno il predominio nel mercato finanziario nazionale e, invece della concorrenza tra il capitale privato, prenderà forza l’oligopolio bancario-industriale protetto dallo stato. Una triade rimasta potente per un altro secolo. La storia non è maestra di vita, ma il presente è radicato nel passato anche in quello apparentemente lontano.
Molte cose oggi sono diverse anche rispetto agli anni Novanta, la seconda epoca d’oro delle privatizzazioni dopo quella immediatamente successiva all’unità d’Italia. Intanto, il grosso è stato già venduto. Di Eni ed Enel, le aziende che valgono di più in Borsa (64 miliardi il gruppo petrolifero, 31 quello elettrico), si mettono sul mercato pacchetti minori. Le altre società sono più difficili da valutare. In secondo luogo, la cabina di regia è nella Cassa depositi e prestiti presieduta da Franco Bassanini. Infine, il mercato langue e la corsa per accaparrarsi un affare è durissima. Un vantaggio per lo stato che può pagare meno i servigi dei banchieri.
Al ministero del Tesoro s’è appena insediato il comitato per le privatizzazioni, guidato dal direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via. Arrivato da Washington dove è stato direttore finanziario della Banca mondiale, La Via viene nominato da Mario Monti quando Vittorio Grilli diventa ministro dell’Economia. Fabrizio Saccomanni lo ha confermato e ne ha fatto una punta del tridente esterno, con il ragioniere generale dello stato Daniele Franco (Banca d’Italia) e il commissario straordinario per la spending review, Carlo Cottarelli, paracadutato dal Fondo monetario internazionale. A sovrintendere le nuove privatizzazioni, sono stati nominati Anna Maria Artoni, imprenditrice bolognese dei trasporti, da sempre vicina a Enrico Letta (era invitato d’onore alle sue nozze un anno fa); Massimo Capuano già amministratore delegato di Borsa italiana oggi alla guida di Centrobanca, l’investment bank di Ubi banca; Piergaetano Marchetti grande avvocato d’affari ex presidente della Rcs e Alberto Provasoli attuale presidente della stessa casa editrice; sono personalità di spessore e grande esperienza (Marchetti è stato nel comitato privatizzazioni creato da Carlo Azeglio Ciampi), ma che ne diranno il gruppo Espresso o Mondadori? E’ vero, si tratta di un organismo consultivo, però qualche conflittino d’interesse potrebbe sempre affacciarsi o magari venire insinuato come il venticello rossiniano. Cosa succede se il Corriere della Sera pubblica uno scoop sulla vendita delle imprese pubbliche o se nella partita delle privatizzazioni entra la banca di Capuano?
Molto dipende da come si comporta la Cdp che ha bisogno anche lei di incassare. Non perché le manchi liquidità, al contrario, manovra 230 miliardi di risparmio postale, ma perché è rimasta a corto di capitale e deve aumentare il patrimonio. Un po’ banca, un po’ fondo sovrano, un po’ ente economico di stato, questo ircocervo politico-finanziario possiede il pacchetto più robusto dell’Eni, pari al 26,7 per cento diretto (mentre il 4,3 per cento è in mano al Tesoro). E’ previsto che ne venda solo il 3 per cento, ma prima l’Eni dovrà riacquistare un 10 per cento delle proprie azioni; ciò porta la mano pubblica al 33 e in questo modo, dopo la cessione, lo stato non scende sotto quota 30. Incasso previsto dall’operazione tre miliardi. L’Eni non può essere obbligata, ma solo incoraggiata: si tratta di fare un favore al governo in cerca di quattrini, a futura (e non troppo lontana) memoria visto che nella primavera prossima scadono tutti gli amministratori.
C’è poi la Sace, società attiva nel credito per l’esportazione. La Cdp un anno fa l’ha acquistata dal Tesoro per 6 miliardi, ora si appresta a cedere non il capitale ma il 60 per cento delle attività, in particolare il suo core business, come è avvenuto in Germania. Le Assicurazioni Generali hanno aperto un negoziato con Giovanni Gorno Tempini, amministratore delegato della Cassa. Ma avrebbero mostrato interesse anche la Allianz e importanti fondi esteri a cominciare da Blackstone. Tutti quelli con passaporto straniero, tuttavia, partono svantaggiati mentre il Leone di Trieste sembra più adeguato a tutelare il credito all’esportazione e la protezione degli investimenti italiani all’estero. Della vecchia Sace restano le cauzioni sulle costruzioni o il factoring verso la Pubblica amministrazione e il tutto verrà fuso nella Cdp che, vendendo le attività della nuova società, vuole incassare 4 miliardi. Molto anche per le Generali.
Fincantieri, risorta a nuova vita (un anno fa ha strappato ai coreani un’importante società norvegese) fa capo sempre alla Cdp, attraverso Fintecna. Il piano prevede di mettere sul mercato fino al 49 per cento tramite la quotazione in Borsa, con un introito sugli 800 milioni. E qui le banche d’affari avranno di che sbizzarrirsi. Infine, Enav e Stm. La prima è la società che controlla il traffico aereo ed è posseduta al 100 per cento dallo stato che vorrebbe cederne il 40 per cento. Per Enav, invece, non c’è la fila di acquirenti. Secondo gli analisti più tenaci, quelli che non mollano mai l’osso, con una governance adeguata e un utile decente, potrebbe attirare l’interesse di alcuni fondi di private equity: a Londra ce ne sono un paio che potrebbero farsi avanti. La Stm produce microprocessori ed è forte nei telefonini. In Borsa capitalizza 5,3 miliardi. La sua proprietà è divisa tra il governo italiano e quello francese (entrambi posseggono il 27,5 per cento); dunque nessuna privatizzazione, il suo destino è tornare in pancia alla Cdp.
Per trovare chi compra la minoranza qualificata della società delle reti (controlla Terna, la rete elettrica, e Snam cioè quella del gas) Gorno Tempini ha chiamato la banca Lazard, la crème de la crème che in Italia è presieduta da Carlo Salvatori banchiere di lungo corso già in Bnl con Nerio Nesi, in Ambroveneto con Giovanni Bazoli, alla Banca di Roma con Cesare Geronzi, in Unicredit con Alessandro Profumo, poi in Unipol. Cdp pagherà una parcella per la ricerca. La Lazard ha ricevuto manifestazioni di interesse da parte delle Casse di previdenza di notai, avvocati, ingegneri e architetti. Se l’affare si farà, la banca applicherà una percentuale sulla transazione, in più ci sono annessi e connessi.
Non è dato sapere a priori quanto porterà a casa questa schiera di consulenti, valutatori, avvocati e agenti pubblicitari, uno sciame operoso attorno ai gioielli di famiglia. Si possono fare delle stime, ma molto generiche. Quel 3 per cento degli anni Novanta serve come punto di riferimento. “Dipende dalla natura e dal volume dell’operazione”, spiega un esperto di Piazza Affari e cita l’esempio di Twitter. Per l’Ipo (Initial public offering, la prima quotazione in Borsa), Goldman Sachs contava di incassare fino a 20 milioni di dollari cioè il 38,5 per cento, a Morgan Stanley spettava il 18, a JP Morgan Chase il 15, a Bank of America Merrill Lynch e a Deutsche Bank l’8 ciascuna. Ma quei 20 milioni sarebbero stati versati solo se Twitter avesse rastrellato 1,6 miliardi al miglior prezzo. Una clausola spesso applicata a Wall Street che ha imparato la lezione dell’allegra turbofinanza.
Divenne popolare alla fine degli anni Ottanta un libro intitolato “I barbari alle porte”, scritto da Bryan Burrough e John Helyar, due giornalisti del Wall Street Journal che raccontavano come Henry Kravis, fondatore della Kohlberg Kravis Roberts & Co., aveva preso e spolpato la Nabisco, colosso americano dei biscotti, finanziandosi con il debito. La tecnica è stata applicata anche in Italia soprattutto nella scalata a Telecom nel 1999, dove la Lehman Brothers rappresentata da Ruggero Magnoni, faceva da cornucopia per Roberto Colaninno. Erano gli anni in cui l’ex comunista Massimo D’Alema batteva il record della signora Thatcher e si vantava di avere privatizzato più della Gran Bretagna. E’ vero, in numero di imprese e in ricavato (198 mila miliardi di lire). Di più, non meglio. Basta guardare a come è finita proprio Telecom Italia che allora batté il record mondiale, surclassando British Telecom, la maggiore delle privatizzazioni inglesi.
Il mito del Britannia, del resto, ci perseguita da oltre vent’anni. Uno spettro infernale, l’ombra del sospetto sul Bel paese svenduto alle grandi potenze straniere, mentre il pool di magistrati di Mani pulite tagliava le teste del vecchio sistema politico. Chi c’era e chi non c’era in quel 2 giugno 1992 sullo yacht della regina Elisabetta nel porto di Civitavecchia? Fa gli onori di casa Peter Baring della banca omonima (la stessa, sempre per tornare alla storia, che nel 1881 organizzò il prestito allo stato italiano per riportare la lira nel gold standard). Mario Draghi svolge una relazione sulle privatizzazioni e se ne va, poi parlano Mario Baldassarri consigliere della Confindustria e Lorenzo Pallesi presidente dell’Ina. Interviene una sfilza di esperti delle banche d’affari anglo-americane. Ascolta attento Nino Andreatta ex ministro del Tesoro e mente economica della Dc. Accanto a lui i massimi esponenti dell’Eni a cominciare dal presidente Gabriele Cagliari, dell’Enel, di Finmeccanica, delle grandi banche e via via tutti i boiardi di stato che sembrano assistere all’anteprima del loro funerale. Non c’è nessuno, invece, da Mediobanca. Non è stata invitata. Lo ricorderà con orgoglio e con tono di sfida il direttore generale Vincenzo Maranghi all’assemblea degli azionisti nel 1996, lamentando di essere stato tenuto ai margini. In realtà, si è occupato niente meno che di Enel e Stet. Ma Romano Prodi ha sempre cercato, fin da quando era al vertice dell’Iri, di ridimensionare Mediobanca; diventato capo del governo, ci ha provato ancora.
Lo spirito del tempo spingeva verso la concorrenza e portava le merchant bank fin dentro Palazzo Chigi. Quella di D’Alema non parlava inglese, disse perfido Guido Rossi il quale, pure, con i voti del partito di D’Alema era entrato al Senato dieci anni prima. Ma tutte le altre sì. Le rete relazionale delle grandi banche s’è insinuata nel cuore del potere pubblico, alla caccia di grand commis e di figure politiche rappresentative. Goldman Sachs in Italia ha colto fior da fiore: Mario Draghi, Romano Prodi, Mario Monti, Gianni Letta. Non sono state a guardare nemmeno Deutsche Bank che si è rivolta a Giuliano Amato, Credit Suisse con Vittorio Grilli e Rothschild con Franco Bernabè.
Oggi siamo lontani da un altro Britannia. Eppure, il nuovo ciclo di privatizzazioni invita ad alzare la guardia. Che siano vere e non delle partite di giro: lo chiedono in molti, da Francesco Giavazzi, liberista di sinistra sul Corriere della Sera ad Alessandro De Nicola liberista di destra sulla Repubblica. E che non finiscano per versare nelle casse delle banche d’affari più quattrini di quelli che andranno allo stato. Perché una cosa è certa: i barbari sono sempre alle porte.

Fonte: Il Foglio del 1 dicembre 2013

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