Giulio Andreotti, di cui tutto si può dire tranne che non fosse un fine politico, spiegò negli anni Sessanta che, se esistono due forni, per comprare il pane al miglior prezzo sarebbe un errore dichiarare che ci si vuol servire da uno solo dei due. Il prescelto, certo di non essere abbandonato, sarà assai meno propenso a praticare le migliori condizioni possibili. Andreotti si riferiva alle possibili alleanze di governo della Dc: essendo necessaria una coalizione, escludere a priori un’alleanza con una delle due ali dello schieramento politico avrebbe conferito all’altra un potere contrattuale molto più elevato. L’allegoria è però ovviamente applicabile a molte altre situazioni, essendo nient’altro che un’esemplificazione del principio della concorrenza.
Nel suo rapporto con l’Europa e con l’euro l’Italia si è comportata finora esattamente nel modo che Andreotti giudicava sbagliato per ottenere il miglior risultato possibile. I responsabili politici a tutti i livelli non si stancano di dichiarare che quella dell’euro è una scelta irreversibile, e di conseguenza le nostre politiche non possono che essere quelle decise a livello europeo. Il problema è che su quelle politiche non abbiamo finora mostrato la minima capacità di incidere, nonostante che si stia sempre più diffondendo la consapevolezza che sono sbagliate in linea generale e particolarmente dannose per il nostro paese (anche se non solo per il nostro), mentre avvantaggiano i paesi – Germania in primis – che esercitano saldamente una
leadership sull’Unione.
Il problema è però complicato da un fattore al di fuori del nostro controllo. Se solo si cominciasse non diciamo a ipotizzare, ma persino a discutere della possibilità di abbandonare la moneta comune, è praticamente certo che si scatenerebbe la speculazione internazionale sui titoli del nostro debito pubblico, con conseguenze devastanti. Il ritorno a una nostra valuta comporterebbe infatti senza ombra di dubbio una svalutazione, probabilmente di una certa consistenza, con perdite in conto capitale per i detentori esteri del nostro debito pubblico, che dunque al solo accenno di quella possibilità si affretterebbero non solo a vendere, ma anche ad aprire posizioni ribassiste, con un conseguente disastroso crollo delle quotazioni dei nostri titoli e impossibilità di collocarne di nuovi. Una cosa del genere ci farebbe precipitare immediatamente nell’insolvenza e c’è da dubitare che i meccanismi europei – sempre che si raggiungesse l’accordo per metterli in azione – sarebbero in grado di far fronte alla situazione.
Ci troviamo dunque in una terribile trappola. La situazione ci costringe a negare recisamente la sola possibilità che possiamo far ricorso a un altro “forno”, ma continuare ad esser legati a questo ci toglie potere contrattuale e sta distruggendo la nostra economia.
C’è però anche un altro aspetto da considerare. Nonostante l’attuale tranquillità apparente, con lo spread verso i Bund che sembra scendere verso i livelli pre-crisi, la situazione è tutt’altro che stabile. Nonostante le consuete rassicurazioni non si capisce ancora se la luce in fondo al tunnel è quella che ne indica la fine o quella di un treno che potrebbe travolgerci. In altre parole, la mai tanto annunciata ripresa è ancora tutt’altro che certa, e comunque la sua dimensione potrebbe essere insufficiente a tamponare il disastro della nostra economia. Se così fosse, continuerebbe il nostro avvitamento negativo. Non solo: può accadere qualcosa che, pur essendo esterno al nostro paese, finisca per provocare un tumulto nel quale possiamo essere coinvolti e travolti, magari non solo noi ma anche altri paesi in difficoltà. E’ tutta da vedere, per esempio, la reazione che avranno i mercati quando la Federal Riserve Usa annuncerà la progressiva cessazione del quantitative easing, ossia del pompaggio di liquidità nell’economia al ritmo di 80 miliardi di dollari al mese. E l’imminente pronuncia della Corte costituzionale tedesca sugli interventi della Bce potrebbe avere un effetto dirompente. Ma anche altro può succedere, che non si può nemmeno ipotizzare perché gli ultimi anni ci hanno abituato al manifestarsi di eventi imprevedibili.
In altre parole, la crisi può scoppiare indipendentemente dai nostri comportamenti e la disintegrazione dell’euro, seppure al momento appare improbabile, non può essere esclusa a priori e potrebbe essere scatenata da fattori a noi del tutto esterni.
Se questo accadesse, saremmo pronti ad affrontare la situazione? Esiste un “piano B”, preparato per questa evenienza? O ci dovremmo affidare all’improvvisazione del momento? E se invece questo piano esistesse, siamo certi che sia meglio fingere di non averlo? O non sarebbe più opportuno discuterne pubblicamente, magari ipotizzando vari scenari con le relative contromisure?
Ma, si obietterà, abbiamo appena detto che il solo accenno ad una discussione del genere potrebbe scatenare il disastro. Questo però dipende anche dal tono e dal contesto con cui si affronta la questione. Una cosa è minacciare l’uscita dall’euro e agitare la preparazione di un “piano B” come concretizzazione della serietà di una tale minaccia. Altro è affermare che, pur restando la nostra adesione alla moneta unica la nostra sola scelta strategica, non possiamo farci trovare impreparati qualora condizioni imprevedibili e indipendenti da noi provocassero un suo crack. Nel ’92 nessuno aveva previsto o anche solo immaginato la deflagrazione dello Sme, ma quando accadde non ci fu modo di evitarla. E non ci riferiamo solo alla fuoriuscita della sterlina e della lira: non bisogna dimenticare che, in seguito alle tensioni sui cambi (e in particolare sul franco) che dopo mesi non accennavano a finire, la banda di oscillazione fra le monete rimaste nell’accordo di cambio fu portata da più o meno 2,25% a più o meno 15%. Un accordo di cambio che preveda una possibile oscillazione del 30% fra le monete che ne fanno parte diventa del tutto formale. E solo allora, infatti, le pressioni speculative cessarono.
Oggi, con la smisurata massa di carta in giro per il mondo e la sofisticazione dei derivati e dei programmi di e-trading, i rischi sono incomparabilmente più elevati. Le banche centrali furono battute allora e potrebbero essere battute anche oggi, tanto più che la Bce dovrebbe lottare con un braccio legato dietro la schiena, perché di certo vari membri del suo board non sarebbero disposti a permetterle di fare davvero “di tutto” per salvare l’euro. Non bisogna dimenticare che nel ’92 la Bundesbank a un certo punto si tirò indietro, infischiandosene dell’accordo che prevedeva interventi illimitati da parte delle banche centrali dei paesi Sme.
Se la discussione del “piano B” – che dovrebbe coinvolgere strutture istituzionali, altrimenti sarebbe del tutto irrilevante – avvenisse entro un simile contesto, difficilmente qualcuno potrebbe avere da obiettare e non si darebbe agli investitori il segnale di un cambio di linea politica. Nello stesso tempo, non potrebbe che giovarci, anche nei confronti degli interlocutori europei, l’immagine di un paese che è comunque preparato ad affrontare ogni evenienza.
* UBS precisa che lo studio sul settore bancario italiano attribuito da Formiche. net alla banca non esprime la view ufficiale di UBS. UBS Investment Research stabilisce la propria ‘house view’ nei confronti del mercato esclusivamente attraverso la ricerca regolarmente pubblicata e diffusa agli investitori e al mercato.
Euro, serve un “piano B” per rafforzare l’Italia
Commenti disabilitati.