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Come stare nell’euro e tagliare le tasse

Ne1 2010, tre anni dopo lo scoppio della crisi mondiale, presi atto dell’assenza di qualsiasi decisione concreta per difendere l’euro e scrissi un articolo che destò molto scalpore, invitando le autorità italiane a dotarsi di un Piano B per prepararsi a uscire dall’eurosistema, un evento che non doveva essere preso sotto gamba. Chiedevo però di mettere a punto anche un Piano A nel caso in cui avessimo deciso o fossimo stati costretti a restare nell’euro in un habitat economico e politico che promette la ripresa ma, celandosi dietro l’obiettivo della stabilità, provoca recessione e disoccupazione. Un po’ per i provvedimenti monetari tardivi presi dalla Bce di Draghi e la creazione del Fondo salva Stati decisa dal Consiglio Europeo, un po’ per la posizione assunta dai gruppi dirigenti italiani a favore dell’appartenenza a questa Europa, dobbiamo prendere atto che ciò di cui veramente abbiamo bisogno è di un Piano A dai contenuti diversi da quelli che attualmente lo contraddistinguono.
La prima parte di questo Piano dovrebbe essere quella di sottrarsi al ricatto che pone l’Italia di fronte alla scelta di perdere ulteriori porzioni di sovranità fiscale – che gli accordi di Maastricht hanno lasciato agli Stati sotto vincoli parametrici – in cambio di un’assistenza che non risolve i nostri problemi, ma offre solo tempo per affrontarli e pone a carico del nostro bilancio pubblico, già asfittico, oneri per salvare gli altri.
L’obiettivo è raggiungibile se si eliminano i due principali fattori di nostra debolezza: il livello del debito pubblico e l’attitudine passiva nel difendere gli interessi nazionali nel convincimento, continuamente ripetuto, che essi coincidono con quelli europei. Parlo ovviamente sempre di questa Europa e non di quella nella quale abbiamo creduto, il cui oggetto è stato sempre ripetuto in tutti i Trattati: le opportunità di sviluppo e non la virtù risanatrice dell’austerità che produce deflazione e disoccupazione.
Le azioni concrete da intraprendere per sottrarsi al ricatto, giusto o sbagliato che sia, sono due. Il consolidamento delle scadenze dei titoli di Stato italiani garantito dalla cessione del patrimonio pubblico – per il quale esistono programmi dettagliati redatti già da tempo – e un taglio lineare generalizzato della spesa pubblica complessiva del 3% per non dover ricorrere a nuove emissioni di obbligazioni durante l’intera durata del periodo di rimborso (proposta in 7 anni, ossia più di un’intera legislatura). Ciò farebbe risparmiare almeno 20 mld di euro di interessi da destinare alla riduzione della pressione fiscale, il secondo grande problema del Paese, come premessa di una incisiva riforma tributaria che porti a due tasse standard sui redditi personali (una statale e una comunale), più quelle sui consumi, da fissare in proporzione alle spese ritenute necessarie. Ciò collocherebbe al centro della politica la soluzione del problema principale della società italiana, la riforma della pubblica amministrazione, ivi inclusa quella degli organi elettivi. Le altre riforme, quella pensionistica, del mercato del lavoro, del credito e dei capitali vanno poste sul sentiero della normale gestione cessando di introdurre continue regolamentazioni che estenuano i cittadini dal lato dell’impegno di comprensione a loro richiesto e della continua erosione dei loro redditi. Il caso dell’Imu e delle sue trasformazioni rocambolesche non sono degne di una società civile.
Il Piano A per restare in Europa prevede oggi piccoli stimoli non risolutivi per la ripresa, l’assistenza ai disoccupati e ai bisognosi, la spending review e l’aumento dell’imposizione patrimoniale anche per finanziare spese correnti, l’ultima delle follie culturali che sono cominciate con la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Il programma non prevede nessuna delle due cose da fare, anzi le complica, come testimonia il continuo aumento del rapporto debito pubblico/Pil e della pressione fiscale complessiva: forse è la prima volta che si richiedono ai cittadini sacrifici per stare peggio. Occorre quindi un cambio dei contenuti del Piano A per non trovarsi nuovamente di fronte alla necessità di dover porre mano a un Piano B, che sarebbe altrettanto serio da redigere e difficile da realizzare nelle attuali circostanze interne e geopolitiche.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 22 dicembre 2013

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