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Quel liquido amniotico che avvolge l’economia

Ci sono statistiche che possono essere tanto imperiose quanto incomprensibili. Come quella che ci rivela che gli 85 individui più ricchi del mondo posseggono un patrimonio pari a quello della metà più povera del pianeta. L’1% più affluente controlla una ricchezza 65 volte maggiore del 50% più povero. Non è solo il tema ovvio della giustizia che viene denudato da una luce statistica che sfida la ragione. A un secondo sguardo infatti lo stupore è accresciuto dalla sensazione di non poter governare quasi nulla di una realtà troppo grande e distante. Una realtà che assomiglia alle parole che Borges immaginava scritte usando per lettere le strade di Buenos Aires «parole troppo grandi per essere comprensibili».
In questo contesto, i buoni segnali di ripresa economica nel 2014 che sono emersi dagli incontri di Davos sono stati comprensibilmente sovrastati dai timori di lungo orizzonte. L’improvvisa fragilità dei paesi emergenti; la possibilità che la tecnologia spiazzi metà dei posti di lavoro; lo spionaggio dei dati e l’erosione delle libertà; la finanza tornata aggressiva. Quest’anno voteranno le democrazie più popolose del pianeta, India, Unione Europea, Stati Uniti, Brasile e Indonesia. Lo faranno in un clima in cui quasi tutto ciò che è importante sembra sfuggire al controllo dei loro cittadini.
Con problemi di dimensioni planetarie, le categorie politiche tradizionali, centrate sulla distribuzione del reddito, danno un orientamento limitato. Inoltre la crisi finanziaria ha incrinato lo scambio informale tra potere e prosperità che aveva creato consenso per la democrazia in paesi che non ne avevano tradizione. La confusione è totale: gli ucraini muoiono brandendo le bandiere europee, mentre gli europei si preparano a votare contro se stessi, per un Parlamento per il quale già da 15 anni vota meno di metà degli elettori. Un riflesso introspettivo e impaurito alimenta la xenofobia. La Scozia pensa alla secessione dalla Gran Bretagna a sua volta tentata di separarsi dall’Europa.
Il finale lo conosciamo: dopo aver troppo strofinato la lampada dell’anti-europeismo, perfino il partito euro-scettico tedesco pensa di sciogliersi, impaurito dal fronte nazionalista cresciuto al proprio interno.
Solo pochi anni fa a Washington ci si preparava all’era cinese. Si studiava quale grado di autoritarismo – a cominciare da quello informatico – fosse indispensabile introdurre in Occidente per tenere il passo dei prossimi padroni del pianeta. Ora il pendolo globale oscilla al contrario. Il contributo Usa alla crescita mondiale torna a essere superiore a quello cinese; il Giappone produrrà più reddito dell’India; l’Eurozona tornerà a crescere. A ben vedere la media dei Paesi emergenti, Cina esclusa, da cinque anni cresce a tassi non diversi da quelli delle economie sviluppate. Non è cambiata la storia, non è la vittoria delle democrazie, si è solo capito che non esiste inerzia benevola. Tutto è fragile se non è governato.
E l’arretramento nella capacità di governo dell’economia mondiale è sconcertante. Dopo i buoni sforzi di coordinamento del 2009, il G-20, il Fondo monetario, il Wto, i gruppi delle banche centrali, si sono insabbiati. Oggi parliamo di “magia crudele” del capitalismo americano, di “cacofonia costruttiva” dei governi europei, ma la verità è che non sappiamo che cosa succederà dopo che cesserà l’enorme immissione di liquidità con cui la Banca centrale Usa alimenta il mondo, dà ossigeno alle sue imprese, ma gonfia bolle speculative che arricchiscono il solito 1%. La finanza come causa e soluzione della crisi, è come un liquido amniotico che avvolge tutto e trasmette ogni brivido. Quando l’Argentina va in crisi, tremano la Cina e la Turchia, ma si apre anche lo spread tra Italia e Germania.
Così anche in Italia troveranno spazio le tentazioni all’introversione. Eppure se c’è una radice degli speciali problemi italiani, andrebbe cercata negli anni Novanta quando il Paese, sfinito dal debito, ha avuto paura di aprirsi. L’aumento dell’economia in nero è stato impressionante. Mentre la Germania raddoppiava la quota dell’export sul Pil, noi abbiamo pensato di difendere le mura, puntando invece sui servizi interni: oltre il 70% del valore aggiunto ma solo il 5% dell’export italiano. La quota di profitti dei servizi professionali è diventata 5-6 volte più alta che in Francia, in Benelux o in Scandinavia, con margini di oltre il 60%. L’economia “introversa”, isolata dal mondo, è diventata più forte e quindi più influente culturalmente. Non a caso si è stretto un rapporto con la politica locale raramente sano e mai lungimirante. Alla fine l’introversione ha prevalso e il Paese ha smesso di crescere.

Fonte: Sole 24 Ore del 26 gennaio 2014

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