• venerdì , 22 Novembre 2024

Confuse iniziative sul Codice di Autodisciplina delle società quotate

Si sente in giro una gran tramestio, un confuso agitarsi intorno ai temi della governance delle società quotate; il bersaglio principale sembra essere il Codice di Autodisciplina della Borsa italiana, il primo esempio di autoregolamentazione nel nostro ordinamento societario. Qualcuno già si balocca con l’idea di modificarlo, prendendo spunto da recenti polemiche in materia di stock option, ma in realtà puntando a rivederlo in diversi aspetti significativi (amministratori indipendenti, comitati del consiglio, sanzioni).

Dall’approvazione del Codice non è passato giorno senza ascoltare arcigne rampogne di responsabili del Tesoro, Commissari della Consob e altre autorevoli voci: codice ‘senza denti’, disposizioni poco incisive e lacunose, sfavorevole confronto con gli standard internazionali dei mercati più evoluti, mancanza di sanzioni. L’inchiostro di stampa del Codice è ancora fresco, e già Borsa italiana, nel suo progetto Star per un segmento mid-cap di titoli di qualità, inserisce tra i requisiti di ammissione al segmento la previsione di un numero di consiglieri indipendenti automaticamente determinato in funzione del numero totale di consiglieri.

Dubito che tutto ciò aiuti a migliorare le cose; si può temere che possa compromettere il processo virtuoso nella regolamentazione e nei comportamenti privati che si voleva avviare e che, essendo ai primi passi, necessariamente è ancora gracile. Vedo due pericoli. Il primo è che si indebolisca il convinto sostegno al Codice, che ne aveva consentito l’approvazione da parte di tutti gli interessi in gioco e che è necessario per il suo successo. Val la pena di ricordare che le società quotate stanno adottando in questi mesi le delibere per l’attuazione del Codice; secondo quanto stabilito nel Regolamento di Borsa, esse dovranno illustrare e motivare le scelte compiute agli azionisti e al mercato, mediante apposita relazione di accompagnamento al bilancio del corrente esercizio, dunque nella primavera prossima. Critiche corrosive e modifiche in corso d’opera rischiano di delegittimare uno strumento che per sua natura dovrà vivere di reputazione nelle autonome valutazioni del mercato.

L’iniziativa di Borsa italiana di creare un nuovo metro di comportamento rispetto alla presenza in consiglio di amministratori indipendenti, mentre ancora non si è iniziato ad applicare quello stabilito dal Codice, solleva perplessità: anzitutto perché rimette in questione il principio di freedom with accountability che è alla base del Codice, e poi perché riapre una questione sulla quale un consenso era stato raggiunto in seno al Comitato che lo ha elaborato.

L’esperienza dei Codici stranieri mostra, al riguardo, l’importanza di creare con gradualità un costume e un clima culturale. Più che la minuziosa specificazione di singole disposizioni, conta l’attitudine complessiva di ogni società, da valutare in base all’insieme dei suoi comportamenti. E conta il contesto normativo nel quale il Codice si colloca: l’enfasi che alcuni pongono sulla presenza di amministratori indipendenti è più giustificata in un sistema prevalente di public company, e dove magari non esiste l’istituto del collegio sindacale.

Il secondo pericolo è che si voglia tornare a far valere la logica dell’ordinamento tradizionale – norma imperativa, violazione, sanzione da parte dell’autorità – in un campo in cui ciò non è necessario e in effetti è controproducente. La logica del Codice non è quella di completare e integrare la norma imperativa (in questo caso il Testo Unico della Finanza). Si tratta invece di affidare al mercato la ricerca di standard di comportamento che migliorino la qualità dei singoli titoli e del mercato italiano di borsa nel suo insieme agli occhi degli investitori. Spetta a questi di decidere se il Codice italiano è buono, mediocre o insufficiente; il premio è costituito dall’aumento della quota dei titoli italiani in portafoglio, la sanzione la sua riduzione e la debolezza delle quotazioni.

Il Codice non può diventare il veicolo di modifiche surrettizie al Testo Unico della Finanza, in risposta ad eventi contingenti. Senza entrare nel merito di particolari episodi, il nostro ordinamento offre ampie garanzia di trasparenza e informazione sui comportamenti degli amministratori, incluse le remunerazioni; la Consob ha estesi poteri di indagine; il codice civile offre rimedi per eventuali pregiudizi a danno delle società e degli azionisti di atti degli amministratori. Il legislatore può intervenire laddove l’ordinamento appaia carente di fronte a nuovi sviluppi; il disegno di legge sul diritto societario purtroppo non sembra avanzare in Parlamento.

Ogni società che decida di adottare il Codice non può ridursi ad importarne acriticamente i principi, ma dovrà adattarli nei modi e nei limiti in cui lo ritenga utile per il suo funzionamento interno e la sua immagine. Gli investitori e il mercato giudicheranno il risultato. Gli investitori istituzionali, d’altro canto, sono coscienti della necessaria gradualità del processo. Ad esempio l’International Corporate Governance Network raccomanda pragmatismo nell’applicazione dei principi di governance; e TIAA-CREFF, il fondo pensione degli insegnanti e docenti universitari USA, mentre sottolinea l’importanza di ‘muovere la classifica’, riconosce che non in tutti i Paesi è opportuna l’adozione di un codice “one size fits all”.

Dunque, vorrei invitare alla prudenza. Abbiamo imboccato, con l’autodisciplina, una strada nuova. I benefici possono essere rilevanti per il buon funzionamento e la qualità del nostro mercato dei capitali. Occorre però saper attendere, guardare un po’ più lontano dell’ultimo incidente o dell’ultima pubblica controversia. Borsa italiana può condividere, credo, questa impostazione, che aveva contribuito in maniera determinante ad affermare nella fase di formulazione del Codice.

Fonte: "Il Sole 24 Ore" del 12 novembre 2000

Articoli dell'autore

Commenti disabilitati.