• sabato , 23 Novembre 2024

La certezza del diritto e i calcoli elettorali

PRIMA che in Parlamento vada avanti l’esame del decreto sui mutui e, soprattutto, che si apra
la cataratta degli emendamenti che l’opportunismo e la demagogia stanno fabbricando, è
opportuno formulare alcuni interrogativi sui quali, giusti o sbagliati che siano, qualche risposta non
guasterebbe, nella residua speranza che sia ancora possibile individuare il bandolo logico di una
matassa nella quale aberrazioni giuridiche e dirigismo finanziario si vanno irrimediabilmente
intrecciando. Un primo e basilare interrogativo è: perché quei mutui devono essere rinegoziati?
Nessuno finora l’ha detto o scritto in modo oggettivamente argomentato. Le risposte possono
essere di due ordini, sociale ed economico. Sociale non credo. I mutuatari non sono, come
categoria, persone indigenti che debbano essere aiutate sulla base di un concetto solidaristico. Se
alla collettività, o ad una parte di essa, deve essere richiesto uno sforzo in tal senso, si ammetterà
che vi sono altre categorie alle quali andrebbe riconosciuta una precedenza, a cominciare dagli
usurati, quelli veri, dei quali sembra essersi persa memoria. Allora il motivo è di ordine
economico? Potrebbe darsi, perché in effetti l’abbattimento dei tassi di mercato dovuto al
risanamento finanziario e monetario ha comportato un ovvio gigantesco trasferimento di
ricchezza da alcune categorie ad altre. Tra le prime, quelle che ci hanno rimesso, vi sono
certamente quanti, negli anni dei tassi alti, si sono indebitati a tasso fisso, con una scelta – è il
caso di specificare – che in nessun caso può essere ricondotta alle clausole di contratto scritte in
caratteri minuscoli, che nessuno leggerebbe anche se fossero scritte in caratteri cubitali e che,
comunque, con la storia dei tassi non c’entrano nulla. La scelta del tasso fisso è stata una scelta
cosciente, corrispondendo al desiderio di mettere il costo del mutuo al riparo dalla eventualità,
ritenuta quanto meno probabile, di un dissesto finanziario che avrebbe potuto far salire i tassi a
livelli che allora venivano definiti sudamericani. Quella scelta fortunatamente si è rivelata errata,
ma allora? Si vogliono tutelare coloro per i quali il risanamento finanziario del Paese ha costituito
una disgrazia? E la Banca d’Italia, della quale abbiamo ben viva la memoria dell’affanno con cui
in quegli anni doveva impegnarsi per mantenere il controllo dei mercati, sta ora dalla parte di
costoro? E ancora: se gli effetti di questi errori vanno leniti, perché non altri? Perché, ad
esempio, sull’intera collettività nazionale deve continuare a ricadere, nella forma di una fiscalità
aggiuntiva, il costo degli elevati interessi sui Buoni del Tesoro emessi in quegli anni? Perché
questi non vengono ridotti? Sappiamo bene che non si può fare; quello che ancora non si capisce,
però, è perché quelli sì e questi no. Un secondo interrogativo è: se, comunque, vi è un motivo per
ridurre gli interessi su quei mutui, perché l’onere deve ricadere sulle banche? Tutti lo danno per
scontato, persino le stesse banche, ma un motivo plausibile non si è ancora letto o sentito. Le
banche vi hanno guadagnato parecchio, questo è indubbio, al pari di tutti quanti, italiani e stranieri,
hanno impiegato in quegli anni denaro in lire a lungo termine ed a tasso fisso. E allora? Vi è forse
un limite ai profitti che, operando nel rispetto delle norme, le banche possono conseguire? Se
questo limite c’è sarebbe il caso di esplicitarlo perché è un elemento non secondario della scelta
che centinaia di migliaia di risparmiatori hanno fatto di investire nelle azioni delle decine di
banche ufficialmente quotate in Borsa. Forse non tutti si sono accorti che in questa vicenda –
dalla legge del ‘96 al recente decreto – non si è trattato solo di porre limiti dirigistici a tassi di
interesse e condizioni contrattuali la cui definizione dovrebbe essere affidata al mercato, ma sono
state definite norme in funzione della «congruità» dell’onere che avrebbero comportato per le
banche; in funzione, quindi, della profittabilità di aziende quotate, e come tali proprietà di
centinaia di migliaia di risparmiatori. Sulla base della mera opportunità politica si è trattato e
discusso dei margini operativi di queste aziende, che sono stati dirigisticamente modificati con
quantificazioni – da ultimo quella del tasso al quale i mutui vanno rinegoziati – che non hanno
alcun altro senso e che, infatti, sono e saranno oggetto di contestazione nelle piazze come nelle
aule parlamentari: Pecoraro Scanio, ministro della Repubblica, ha già proposto l’8 anziché il 12%,
con una logica che, a questo punto, può giustificare il 6, il 9 o – perché no? – il 4%. E si può esser
certi che nel corso dell’iter parlamentare non mancherà chi lo farà, non solo per demagogia,
qualunquismo o cinico calcolo elettorale, ma perché nella totale assenza di ogni criterio logico
ogni ipotesi o proposta ha diritto di cittadinanza. Serve forse che si costituisca una associazione
degli azionisti delle banche, adeguatamente chiassosa, perché le loro ragioni trovino
considerazione presso il Governo, presso il Parlamento, presso la Banca d’Italia e persino presso
l’Abi? Sia concesso un ultimo e conclusivo interrogativo: andando così le cose, la «certezza del
diritto» è sempre quel pilastro degli ordinamenti statuali moderni, come ci hanno insegnato i più
grandi giuristi da mille anni a questa parte, o è cambiato qualcosa?

Fonte: La Stampa

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