In un momento in cui l’imperativo categorico per le imprese, soprattutto quelle piccole, è sopravvivere alla recessione, alla stretta creditizia e ai ritardi nei pagamenti dei clienti (lo Stato tra i primi) può sembrare stravagente parlare di borsa. Eppure i numeri letti ieri dal presidente della Consob, Lamberto Cardia, fanno impressione: il mercato azionario italiano è ridotto davvero a poco cosa.
Alla fine del 2009 le società quotate erano 280 e capitalizzavano 457 miliardi di euro, pari al 30% del Pil. «La capitalizzazione della borsa di Milano ha detto Cardia risulta oggi circa la metà di quella di Francoforte, poco più di un terzo di quella di Parigi e un quarto di quella di Londra». Il flottante è scarso perché bloccato nei pacchetti di controllo. Banche e assicurazioni pesano in modo anomalo, rispetto agli altri paesi, sul listino rendendolo più esposto alle «tensioni della finanza internazionale». In aggiunta, tra le quotate figurano ben 44 società iscritte nella black o nella grey list, insomma traballanti: sono il 15% del totale. Se poi si guarda al Sud, c’è da rabbrividire: solo inserendo la Saras della famiglia Moratti tra le società del Mezzogiorno si arriva a uno striminzito 0,7% del listino. Altrimenti ci si fermerebbe allo 0,2 per cento.
È vero che la crisi ancora incombe e che stenta a consolidarsi la fiducia necessaria per guardare avanti, per progettare il futuro, per investire. Anche la borsa, naturalmente, è condizionata dagli eventi macroeconomici. Tuttavia mai come ora l’andamento dei listini è sembrato condizionato dall’equilibrio dei conti pubblici, dai rapporti di forza tra le valute e dalle alchimie politiche internazionali più che dalla salute dellle imprese quotate.
La crisi «ha ulteriormente scoraggiato come ha spiegato il presidente della Consob i nuovi ingressi e favorito le uscite». Dall’inizio del 2008 a oggi il saldo è negativo per 14 unità. Resta il fatto, per dirla con Cardia, che «buona parte delle nostre imprese non sembra propensa a cogliere le opportunità della quotazione». Le società con meno di 100 milioni di capitalizzazione sono il 60% del listino in Europa, il 40% in Italia. Abbassando la soglia a 50 milioni si scende al 50% in Europa e al 25% in Italia.
Le piccole imprese, a prevalente controllo familiare, non ne vogliono sapere di soci esterni. È un dato di fatto che riflette una cultura contro la quale si combatte da decenni, senza successo. Ma se gli imprenditori sono riluttanti le banche non sono da meno: promuovere la cultura del capitale di rischio non è nel loro Dna. Il fallimento del Mac (Mercato alternativo del capitale) ne è la prova palese.
Studiato per minimizzare i costi e gli adempimenti regolamentari per le piccole imprese intenzionate a quotarsi, non è mai decollato. Le maggiori banche, che lo avevano promosso, alla fine lo hanno ceduto a Borsa italiana spa che aveva già qualcosa di simile (Aim, Alternative investment market). Ma nel complesso le imprese quotate con queste modalità sono una manciata,11 per la precisione.
Chi ha esplorato la possibilità di finanziarsi quotandosi su uno di questi mercati racconta che le banche, al momento di stringere, si presentavano con l’alternativa di un credito a lungo termine o con qualche fondo di private equity. Quasi che la quotazione delle imprese, e magari la prospettiva di dovervi investire una sia pur piccola parte dei propri fondi, suonasse blasfema alle orecchie dei banchieri.
Eppure, una volta che la ripresa si sarà consolidata e che la ritrovata fiducia avrà rimesso in moto gli investimenti, è proprio da lì che bisognerà ripartire. Dalla borsa. E soprattutto da quella versione light che meglio si adatta alle caratteristiche del sistema produttivo italiano. Solo riducendo i costi e semplificando la trafila burocratica della quotazione (per inciso, è davvero un bene riportare alla Consob l’ammissione alla quotazione) si possono convincere le piccole imprese ad avvicinarsi al mercato azionario. Dove possono trovare le risorse per crescere, per fare ricerca, per entrare su nuovi mercati esteri, per fondersi con altre imprese nell’ambito di progetti complessivi di sviluppo.
Questo non significa ritornare ai tempi della “opacità diffusa” rinnegando le conquiste degli ultimi decenni sulla trasparenza e, in generale, sulla corporate governance. «La strategia regolamentare ha detto Cardia potrebbe tener conto delle diversità dimensionali, strutturali e di esposizione al rischio delle singole società.
Alla definizione di tale strategia devono concorrere i vari soggetti istituzionali e di mercato». Governo, parlamento, authority, banche e imprese: tutti possono fare la loro parte. E la flessibilità, in questo momento, può essere un fattore davvero determinante.
2010: o la borsa o la vita anche per le piccole imprese
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