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Unicredit, la sindrome tedesca

«Trappola italiana, vittoria tedesca» dice uno. «Non vorrei che alla fine ci trovassimo con Unicredit in mano ai tedeschi e Generali in mano ai francesi» dice un altro. Sono banchieri che parlano, non uomini della strada. Perché il problema a questo punto è come si modificherà l’assetto di potere della finanza nostrana dopo la traumatica uscita di Alessandro Profumo da Unicredit. La questione è delicata. Profumo aveva costruito la più grande e più europea delle banche italiane nel corso di quindici anni. E con la massa di manovra di cui disponeva e con i suoi valori e la sua personalità aveva influenzato in maniera sostanziale non solo l’evoluzione della cultura bancaria e finanziaria del paese, ma anche gli equilibri del sistema. Chi gli succederà inevitabilmente grazie al peso della banca avrà un ruolo altrettanto preminente, ma non è per nulla scontato che lo interpreterà nella stessa maniera.
La questione è delicata per almeno due ragioni. La prima riguarda le prospettive delle fondazioni azioniste e la seconda il ruolo originale per l’Italia che hanno gli interessi tedeschi. Fondazioni e azionisti esteri non sono una novità, la storia di Intesa e del San Paolo di Torino sono state segnate dal ruolo svolto dalle fondazioni e dalla presenza nel capitale della prima del francese Crédit Agricole e in quello della seconda dello spagnolo Santander. Ma ci sono due differenze fondamentali: per quanto riguarda le fondazioni la fase del ciclo nel quale avviene il cambio della guardia in Unicredit e per quanto riguarda i tedeschi il fatto che questa volta non si tratta di un istituto azionista magari con mire colonizzatrici, ma della presenza rilevante di Unicredit all’interno del sistema tedesco.
Ma andiamo con ordine. I tedeschi non sono, almeno da quanto risulta dai dati ufficiali, azionisti di particolare rilievo, sono però presenti in forze nel consiglio di amministrazione (sei su 24, con il presidente, e molti sono pezzi da novanta in Germania) e rappresentano non gli azionisti tedeschi, ovvero specifiche persone o istituzioni, ma il sistema tedesco, ovvero la macchina economica di gran lunga più potente d’Europa. Non bisogna lasciarsi ingannare del fatto che Hvb, la banca bavarese controllata da Unicredit, non è tra i primissimi istituti del paese, né dal fatto che conti solo il 12 per cento delle attività del gruppo. Dal loro punto di vista gli interessi tedeschi coprono tutto l’est Europa, dove le loro imprese sono presenti assai più delle nostre, e la Germania più tutto l’est Europa rappresentano circa la metà delle attività di Unicredit. La gestione strategica della banca in quell’area quindi è senz’altro al centro della loro attenzione.
Ci sono delle situazioni nelle quali essere azionisti non basta, e non esserlo non è un ostacolo insormontabile. Se il sistema tedesco, con tutta la sua potenza, ritenesse di dover determinare l’orientamento di Unicredit è probabile che ci riuscirebbe, indipendentemente dal numero di azioni che può mettere in campo. E non è affatto escluso che in questo momento di debolezza delle loro banche nazionali e di crisi di governance al vertice di Piazza Cordusio, questo non accada.
Chi hanno di fronte? Le fondazioni, che hanno svolto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del sistema bancario italiano nella fase delle privatizzazioni e poi in quella delle concentrazioni. Ancora oggi hanno posizioni rilevanti, anche superiori al loro peso nel capitale in Unicredit per esempio tutte insieme le fondazioni azioniste hanno poco più dell’11 per cento perché rappresentano la componente italiana e stabile dell’azionariato. La novità però è che quell’aggettivo “stabile” non sembra più essere così sicuro. Il rapporto tra fondazioni e banche per funzionare e durare nel tempo ha bisogno di essere oliato costantemente dalla redditività elevata dell’investimento delle prime nelle seconde, come è stato fino al 2007. Ebbene questa redditività elevata molto probabilmente nei prossimi anni non ci sarà e le fondazioni, la cui missione è investire nella maniera più sicura e redditizia il proprio patrimonio per riversare poi i proventi sui territori di competenza, non potranno non essere costrette a valutare se l’investimento nelle banche sarà compatibile con la loro missione e sostenibile nel medio periodo.
Aggiungiamo le inopportune e a volte quasi volgari intrusioni politiche che portano acqua al mulino di chi spinge perché le fondazioni escano dal capitale degli istituti di credito al più presto e comunque ne indeboliscono l’immagine e anche la forza. Alla fine tuttavia quello che conterà saranno i numeri e in particolare quanto le fondazioni incasseranno e quanto saranno di conseguenza in grado di erogare. Stando alle previsioni sulla magra redditività delle azioni bancarie nei prossimi anni è possibile ipotizzare che il ruolo delle fondazioni azioniste sia destinato a ridimensionarsi.
Se così è, le fondazioni stanno facendo una battaglia di retroguardia, e i vociferanti sindaci e presidenti di regione che stanno loro dietro ancora di più, perché presto si accorgeranno da una parte che con tutte le loro pressioni non saranno in grado di condizionare l’allocazione del credito e, dall’altra, che per i loro elettori e per l’economia del territorio la capacità di erogazione delle fondazioni è un fattore assai importante.
Non è difficile immaginare, se guardiamo a Unicredit come quello che è, ovvero una grande banca internazionale, quale sarebbe l’esito di un confronto tra il sistema tedesco e il sindaco Tosi di Verona e il suo rappresentante Biasi al vertice della Fondazione Cariverona o qualsiasi altro dei suoi colleghi. A chi pensiamo che alla fine risponda il vertice di una grande banca europea che vuole continuare ad essere tale? Se poi non volesse continuare ad essere tale per ridiventare provinciale, per i tedeschi sarebbe una vittoria doppia e per l’Italia una doppia sconfitta.
Naturalmente non è finita qui, perché Unicredit, benché Profumo abbia in parte voluta tenerla fuori, è parte integrante del sistema di potere italiano, se non altro per quella sua partecipazione del 9 per cento in Mediobanca che a sua volta è l’azionista di riferimento delle Generali. Il presidente di Unicredit, Dieter Rampl, ha assicurato che quella partecipazione non sarà ceduta. Gli si può credere, almeno per il momento, Ma come sarà usata? Lo spostamento di Cesare Geronzi dal vertice di Mediobanca a quello delle Generali è troppo recente per aver già dato dei frutti, ma c’è da scommettere che ne darà. E tutto ciò mentre il finanziere francese Vincent Bolloré aumenta la sua quota in Mediobanca e annuncia di voler fare altrettanto in Generali.
L’Italia è piena di abilissimi tattici, di fenomenali galleggiatori, ma stiamo attenti, potremmo scoprire che i grandi giochi si fanno sopra la nostra testa e di non essere i protagonisti di ciò che accade in casa nostra.

Fonte: Affari e Finanza del 27 settembre 2010

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