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Perchè la Borsa non serve più

Nel 1997 le società quotate negli Stati Uniti erano 8 mila, ora sono a stento 5 mila. Nell’Europa continentale alla fine di gennaio del 2000 erano 13 mila, ora superano di poco 9 mila. Cosa è successo? Proprio negli anni d’oro del “pensiero unico”, che affidava al mercato che si autoregolava la soluzione di tutti problemi, la Borsa ha perso sex appeal. Quantomeno nel maturo Occidente, poiché Cina, India, Brasile hanno affidato proprio ai listini, che sono prosperi e gonfi come non mai, la costruzione del loro capitalismo nascente. Tra le due coste dell’Atlantico invece quel meccanismo si è arenato, come se il ruolo delle borse nel sistema economico occidentale non potesse più essere, almeno per una certa fase della storia, quello che abbiamo fino ad ora conosciuto. La loro missione è portare capitale alle imprese, essere lo snodo tra il capitalismo diffuso fatto da milioni di risparmiatori e gli investimenti delle aziende, il collegamento tra la finanza e l’economia reale. E’ un ruolo fondamentale che nessuno mette in discussione, per il passato, per il presente e per il futuro, e che tuttavia, proprio a cominciare dal paese scuola del capitalismo diffuso, del mercato e della finanza, gli Stati Uniti, ha cominciato ad appannarsi. Le borse ormai fanno più soldi con i derivati che con le azioni, e il denaro per arrivare alle imprese sempre più spesso prende altre vie.
L’intreccio delle ragioni non è semplice da districare, ma alcuni fili sono più chiari e visibili di altri. Il denaro a basso costo ha fatto certamente la sua parte. Ha ridotto il costo del capitale, ma ancora di più quello del debito che, grazie alle cartolarizzazioni, è anche diventato enormemente più accessibile e meno selettivo per tutti. Debito con le banche ma anche sempre più, per chi ha dimensioni adeguate, direttamente con gli investitori attraverso l’emissione di obbligazioni.
Il debito piace di più perché costa meno, ma anche perché ha un impatto assai meno forte sull’atteggiamento dei mercati. E’ raro che un titolo perda in Borsa se l’azienda annuncia un prestito obbligazionario, ma è pressoché certo che almeno per qualche giorno quel titolo soffrirà se invece annuncia un aumento di capitale.
E qui siamo alla seconda ragione di questo declino dei listini: l’atteggiamento di investitori ed analisti, ormai abituati a considerare la borsa un gigantesco bancomat, un luogo dal quale si prendono soldi più che darne. Quello che conta nelle analisi degli uffici studi dei vari operatori è la redditività a breve delle società, il dividendo, le prospettiva di crescita sempre a breve dei titoli. Il mercato è dominato dalle aspettative a due o tre mesi, massimo a un anno, e per di più è estremamente volatile ed espone le quotazioni ad oscillazioni vistose sulla base di una quantità si fattori che non necessariamente hanno a che fare con la vita della singola impresa. Accade quindi che prima di portare in Borsa la sua società l’imprenditore ci pensa mille volte e valuta tutte le ipotesi alternative.
Tra le tante negli ultimi anni ne è emersa una nuova, ovvero quella di aprire il capitale non ad una platea indiscriminata di investitori, come avviene quotandosi al listino, ma ad un gruppo ristretto di investitori qualificati. E’ la scelta che ha fatto Mark Zuckerberg quando ha deciso di far entrare nel capitale di Facebook Golman Sachs accompagnata da alcuni superricchi che hanno investito una parte delle loro sostanze acquistando pacchetti di azioni del social network. Non è il primo caso. Anno dopo anno aumenta il numero di operazioni sul capitale che passano fuori dalla Borsa, un fenomeno tanto significativo che la Sec ha deciso di aprire una indagine.
Il metodo classico con il quale da anni questo avviene è attraverso il ricorso al private equity, fondi sottoscritti da signori affluenti e da investitori istituzionali, che vengono impiegati acquisendo quote di capitale delle aziende. I soldi arrivati alle imprese per questa via sono tanti: negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2010 circa 350 miliardi di dollari, in Europa nello stesso periodo 450 miliardi di euro, nella piccola Italia oltre 30.
Dietro la fortuna di questi ‘collocamenti privati’ c’è una trasformazione profonda dell’economia e della finanza la cui radice è nell’evoluzione della distribuzione della ricchezza. Negli ultimi vent’anni in quasi tutti i paesi industrializzati, e in maniera particolarmente significativa negli Stati Uniti, la distribuzione della ricchezza si è progressivamente squilibrata, con una parte crescente che è finita nelle mani di pochi e una quota calante è che stata distribuita tra i più. L’esito di questo processo è che la classe media per mantenere il proprio tenore di vita ha smesso di risparmiare (quindi ha meno soldi da investire in azioni, ergo il capitalismo è meno diffuso) e anzi si è indebitata, mentre i pochi superricchi, avendo a disposizione risorse finanziarie enormi, hanno trovato meccanismi più elitari e sofisticati per investirli. Il fiorire dei private equity e degli hedge fund capaci di raccolte miliardarie è figlio di questa nuova distribuzione. E la Borsa, che è il tempio del capitalismo diffuso, di questa nuova geografia del benessere non poteva non soffrirne.
Ma le ragioni del dimagrimento dei listini in Occidente non finiscono qui. Grant Thornton, una nultinazionale della consulenza in settori che vanno dalla contabilità al risk management all’information technology, nel novembre del 2009 ha pubblicato una ponderosa ricerca dal titolo ‘A wake up call for America’, sottotitolo: ‘Studio sul sistematico fallimento dei mercati azionari americani e soluzioni per rilanciare la crescita’.
Questo studio riporta i dati sopra accennati (il numero delle società quotate nei listini Usa è crollato del 22 per cento dal 1991 e del 39 per cento dal picco raggiunto nel 1997) e giudica lo svuotamento dei listini un grave danno per l’economia americana, alla quale se la crescita del numero delle società quotate fosse stato in linea con quella del pil avrebbe portato ben 22 milioni di posti di lavoro in più. Secondo lo studio di Grant Thornton ad essere penalizzate sono state soprattutto le piccole e medie imprese (che mediamente rappresentano il 47 per cento di quelle che vanno in quotazione) che hanno perso importanti opportunità di sviluppo. Secondo lo studio per mantenere la dimensione attuale dei listini americani ci vorrebbero almeno 360 nuove quotazioni l’anno, mentre per farli crescere in linea con l’andamento dell’economia le nuove quotazioni dovrebbero essere almeno 520 ogni 12 mesi: la media dal 2001 è stata invece di sole 166 l’anno.
I numeri delle nuove quotazioni e delle cancellazioni negli ultimi anni sono impressionanti. Al Nasdaq tra il 2008 e il 2009 le nuove iscrizioni sono state 308, le cancellazioni 591; al Nyse le iscrizioni 165 e le cancellazioni 367. A Milano, piccoli numeri: 17 iscrizioni e 28 cancellazioni; a Londra 258 iscrizioni e ben 790 cancellazioni. E’ andata bene solo a Francoforte con 195 iscrizioni e solo 105 cancellazioni.
La tesi di Grant Thornton è che tra le cause del declino ci sia stata una politica apparentemente positiva ma i cui effetti indiretti si sono rivelati disastrosi, quella finalizzata all’abbattimento dei costi delle transazioni. In effetti è diventato assai meno costoso comprare e vendere titoli in borsa, ma gli intermediari hanno dovuto comprimere gli investimenti in ricerche e servizi, penalizzando soprattutto le small cap, ovvero quelle per le quali il listino è il principale potenziale trampolino di lancio. Altro effetto collaterale dei bassi costi delle transazioni è l’esplosione dei ‘day traders’ ovvero di quei signori che attaccati al computer dalla mattina alla sera comprano e vendono azioni lucrano sulle differenze, il cui macrocontributo però è di aumentare esponenzialmente la volatilità dei prezzi.
Infine c’è un dato sostanziale: le aziende non hanno bisogno di soldi. Non hanno mai guadagnato tanto come negli ultimi anni e non hanno mai investito meno, ragion per cui sono sedute su una montagna di liquidità. Il McKinsey Global Insitute, nel suo studio dal titolo ‘Farewell to cheap capital’, addio al denaro facile, rileva che da molti anni a questa parte le imprese sono risparmiatrici nette, tanto che quelle europee, americane e giapponesi dispongono ora complessivamente di una liquidità di oltre 3 mila e 500 miliardi di dollari. Che probabilmente si apprestano ad investire, anche se in parte non marginale in acquisto di azioni proprie.
L’Italia in tutto ciò fa poco testo, la Borsa è stata poco centrale in passato e poco lo sarà in futuro. Si caratterizza però, nel suo piccolo, per la ragione prevalente per la quale le aziende finiscono al listino. In relativamente pochi casi l’obiettivo è quello principe, ovvero raccogliere denari per finanziare lo sviluppo, prevale invece quello di raccogliere denari per rimpinguare le tasche del proprietario dell’azienda o per pagarne i debiti.

Fonte: Affari e Finanza del 28 febbraio 2011

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