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Mediobanca il nodo capitale

Alle quotazioni di giovedì scorso Mediobanca capitalizzava in Piazza affari 4,2 miliardi di euro, pochi milioni meno del suo portafoglio di partecipazioni secondo i valori di libro e più o meno in linea con le valutazioni che gli analisti fanno di quello stesso portafoglio ai prezzi di mercato. E’ come se per gli investitori tutte le attività industriali di Mediobanca, ovvero il corporate investment banking, il retail banking (il credito al consumo di Compass e cheBanca) e il private banking (il 50 per cento di Esperia e il 100 per cento della Compagnie Monegasque), non ci fossero. Come se tutte queste attività, che producono mediamente tra i 200 e i 250 milioni di utili netti ricorrenti l’ anno, non valessero nulla. Negli ultimi mesi del 2011 il titolo è stato frenato dalla preoccupazione che Mediobanca si ritrovasse incastrata nei due aumenti di capitale della Popolare di Milano e di Unicredit, che l’ istituto aveva garantito.Ma Alberto Nagel e Renato Pagliaro hanno fatto bene il proprio lavoro, gli aumenti di capitale sono andati in porto e in Piazzatta Cuccia sono arrivate commissioni per decine di milioni di euro. Chiuso quel fronte però, se n’ è aperto un altro, quello caldissimo di Fonsai, della quale Mediobanca è creditrice per un miliardo, oltre ai 70 milioni prestati alla Premafin, che controlla Fonsai, e i 400 alla Unipol che dovrebbe fondersi con Fonsai. Dal successo di questa operazione dipende quindi la stabilizzazione e potenzialmente la riduzione di circa 1,5 miliardi di crediti. L’ itinerario è complesso ma è probabile che la fusione a quattro Premafin, Fonsai, Unipol e Milano disegnata da Nagel vada in porto, ma anche se non ci andasse il rischio effettivo di perdite consistenti per Mediobanca è considerato sostenibile. Poi ci sono le altre partite. La Rcs, di cui Mediobanca ha il 14,4 per cento attraversa una fase difficile; la Burgo, di cui possiede il 22,1 e nei confronti della quale è creditore per 500 milioni di euro è stata risistemata sul piano industriale ma opera in un settore difficile, la carta, e non riesce a ridurre il debito; Telco, la scatola nella quale c’ è il pacchetto di controllo di Telecom, di cui Mediobanca ha l’ 11,6 per cento, ha più debiti che patrimonio. E poi c’ è il 13,2 per cento di Generali (che con i suoi 2,3 miliardi a valori di libro assorbe metà dell’ intero portafoglio di Mediobanca), che sarà costretta ad una politica del dividendo prudente dalla necessità di accumulare risorse per chiudere nel 2014 le operazioni nell’ Europa dell’ est con il gruppo Kellner. Infine c’ è il credito a medio e lungo termine, che in tempi di recessione può riservare qualche sorpresa. Tanti dossier aperti quindi, tutti complessi ma anche tutti gestibili se la crisi non si accanirà troppo contro il nostro paese. Il problema infatti, per Mediobanca come per tutti coloro che fanno il suo mestiere, è il tempo. La filosofia dell’ istituto è di puntare sulla sua capacità di produrre utili da utilizzare dove e quando serve per mettere a posto, anno dopo anno, le partite difficili. Senza chiedere soldi agli azionisti. In Piazzetta Cuccia è sempre stato così. L’ unico tentativo, l’ emissione di warrant (20092011) per un miliardo varata poco dopo il crack Lehman, è finito in nulla e di nuovi capitali non si è più parlato. Tecnicamente non ce n’ è bisogno, il core tier 1 della banca è all’ 11 per cento, quindi ampiamente al di sopra della soglia di sicurezza, e rimarrà tale secondo le previsioni anche dopo qualche pulizia del portafoglio che caratterizzerà questo semestre. La strategia, da Cuccia in poi, è stata sempre quella di far fare aumenti di capitale ai debitori ma mai a se stessa e alle partecipate. Questo però è un problema. Non per Mediobanca, che soffre in Borsa ma può benissimo andare avanti così per anni e anni. Assai di più lo è invece per Generali, Rcs, Burgo, Telco, che esattamente di nuovo capitale avrebbero bisogno, chi soprattutto per ridurre l’ indebitamento e tornare a respirare aria di futuro, e chi come Generali, per puntare su un più rapido sviluppo senza dover vendere gioielli e gioiellini. Ciascuna di queste aziende, salvo forse Telco, può andare avanti anche così, ma non può crescere, non può dispiegare appieno le sue potenzialità. Il destino è quello di tenere le posizioni, mentre gli altri corrono. Non è ovviamente solo Mediobanca a decidere, ma è facile immaginare quanto più spazio avrebbe Telecom per gli investimenti se la sua controllante Telco potesse permettersi di aumentarne il capitale e ridurne rapidamente l’ indebitamento. Come aumenterebbe la redditività di Burgo, che potrebbe con meno debiti tornare in Borsa, quali dinamiche si potrebbero aprire per le Generali se avesse più fieno in cascina. Ma per aumentare il capitale di tutte queste società ci vorrebbe un aumento di captale anche dell’ azionista Mediobanca, oppure la diluizione delle sue quote. Ambedue strade che nei fatti non sono state finora prese in considerazione. Siamo quindi al dunque. Mediobanca persegue la sua strategia e i suoi interessi, e lo fa bene benché con qualche arroganza, ma i suoi interessi non coincidono più con quelli del paese. Meglio, con quello che il paese vorrebbe diventare, un paese aperto, con un mercato aperto, dove ciascuno si gioca apertamente la sua partita indipendentemente dai salotti e dal sistema di relazioni. La frase di Monti sul capitalismo conservatore dei salotti ha dato il segnale che il tempo è cambiato, o quantomeno che ci si sta impegnando per cambiarlo. La crisi morde e questo ricco paese così povero di capitali, per tornare a crescere ha bisogno di trasformare parte di quelle ricchezze in capitale di rischio, uno spostamento che il “salotto” con le sue opacità e le sue vischiosità non aiuta, anzi piuttosto scoraggia. Allora forse quella capitalizzazione di Mediobanca, che cancella il valore dell’ attività di banchiere che a Piazzetta Cuccia sanno fare benissimo, contiene un messaggio. Che quel modello ereditato dal passato, con quel portafoglio così pesante e condizionante per l’ istituto, per le sue partecipate e per l’ intero sistema, non è più quello giusto per il ventunesimo secolo. Le grandi riforme non sono solo quelle che passano per il Parlamento.

Fonte: Repubblica del 12 marzo 2012

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