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Mps, lo stato torna padrone a Siena il piano “per ricomprare” l’indipendenza

UN PODEROSO TAGLIO DEI COSTI E UNA RIDEFINIZIONE DEL MODELLO CON MENO CREDITO E PIÙ SERVIZI SONO I PUNTI CHIAVE. ALLA FINE DEL PERCORSO TRIENNALE IL TESORO SI POTREBBE TROVARE AD AVERE IL 6% DEL CAPITALE. LE INDICAZIONI PER L’INTERO SISTEMA.
Cinquecento anni per accumulare un patrimonio immenso e meno di dieci per dilapidarlo. La più antica banca del mondo ancora operativa (è stata fondata nel 1472) per evitare di concludere ingloriosamente la sua lunghissima storia ha trovato una sola strada concretamente percorribile: la nazionalizzazione di fatto. A salvare il Monte dei Paschi saranno tre miliardi e mezzo di Tremonti Bond, rivisti e corretti e in via di ridenominazione (non più Tremonti ma Monti bond), una sorta di piccolo Tarp (il fondo creato negli Stati Uniti per salvare le banche dopo il fallimento di Lehman Brothers) in versione italiana. La banca emette obbligazioni che lo Stato compra facendosi remunerare con una cedola annuale che non sarà lontana dal 10 per cento e che il debitore potrà restituire in qualsiasi momento. E, come è accaduto per buona parte del Tarp, non è improbabile che lo Stato ne esca con un significativo guadagno. Grazie alle cedole, che sono pari a poco meno del doppio del costo che lo Stato paga oggi per la sua raccolta, ma anche ad una speciale garanzia introdotta in questa occasione: se il Monte dovesse chiudere il bilancio in perdita o non distribuire dividendi, non pagherebbe i dividendi in contante ma in azioni calcolate come una quota del patrimonio netto tangibile. Poiché è assai probabile che per la svalutazione dell’avviamento in fondo al bilancio 2012 di Mps ci sarà il segno meno, lo Stato si troverà un pacchetto di azioni pari al 3 per cento del capitale, e poiché è possibile che nel 2013 non distribuisca dividendi, di azioni se ne potrebbero aggiungere altrettante. Posto che il piano industriale presentato la settimana scorsa dai vertici di Mps prevede di rimborsare quasi tutti i Tre-Monti Bond entro il 2015 (grazie anche ad un aumento di capitale da un miliardo che gli analisti collocano nel 2014), il Tesoro dovrebbe incassare in cedole circa un miliardo di euro, circa 450 in più di quanto paga oggi per quel denaro. Se una parte sarà in azioni e il piano dovesse funzionare aumentando il valore del titolo, la plusvalenza potrebbe essere anche maggiore. Nazionalizzazione temporanea quindi perché, dice il presidente del Monte Alessandro Profumo, «con il percorso previsto dal piano industriale ci ricompriamo l’indipendenza». I dieci anni che hanno messo in ginocchio la banca più antica del mondo sono cominciati con l’acquisto ad assai caro prezzo della Banca del Salento, sono culminati nel novembre del 2007, alla vigilia dell’esplosione della grande crisi, con quello di Antonveneta per 9 miliardi euro e si sono conclusi con l’accumulo in portafoglio di una montagna di titoli del Tesoro italiano per un ammontare record pari al 316 per cento del patrimonio netto tangibile, la percentuale di gran lunga più alta tra tutte le principali banche italiane. E alla fine sono proprio i titoli di Stato ad aver messo in ginocchio la banca, che con l’aumento di capitale del 2011 aveva assorbito lo stravagante e intempestivo acquisto di Antonveneta e al netto della svalutazione del portafoglio aveva un Core Tier 1 del 9,5 per cento, tra i migliori del sistema. Forse è anche per questo che il Tesoro “si è messo una mano sulla coscienza” ed ha allargato i cordoni della borsa. Ma questa ormai è storia. Il futuro è in un piano industriale che basandosi su uno scenario cupissimo (ipotizza una recessione che dura per tutto il 2013, spread alti per un paio d’anni ancora e tassi bassi per tutti i tre anni del piano) ribalta il modello di banca, segnando forse la strada per quanto anche molti altri istituti saranno costretti a fare. «I bilanci delle banche italiane non sono sostenibili – dice Profumo – perché c’è un funding gap (un eccesso di crediti rispetto alla raccolta ordinaria) che prima era colmato dagli investitori esteri e ora dalla Bce. Quindi la strada è meno intermediazione creditizia, meno costi e più servizi». Il piano, disegnato dall’amministratore delegato Fabrizio Viola e dal presidente Alessandro Profumo con la consulenza di Prometeia, è una sostanziale novità nel panorama italiano. Innanzitutto nella struttura: la ricostruzione dei margini si basa per due terzi sulla riduzione dei costi e per un terzo sull’aumento dei ricavi, quote esattamente opposte ai piani industriali visti fin’ora. E poi per la riorganizzazione del perimetro e la gestione dell’attivo. Cominciamo da quest’ultimo. Avere crediti pari al 130 per cento dei depositi (in linea con la media italiana), in assenza di una disponibilità internazionale a finanziare le banche italiane non è sostenibile, quindi i crediti saranno riportati nei prossimi tre anni ad un più maneggiabile 110 per cento dei depositi. E’ quello che i tecnici chiamano deleveraging, che nel caso del Monte dei Paschi sarà realizzato per una parte attraverso la cessione del controllo del credito al consumo e del leasing e per un’altra parte attraverso una riduzione del credito alle grandi imprese, che hanno la possibilità di raccogliere direttamente sul mercato emettendo obbligazioni. Naturalmente se si riduce il credito diminuiscono anche le entrate della banca, e qui si passa al secondo elemento qualificante del piano. Per compensare le minori entrate da intermediazione si aumenteranno quelle da servizi, quindi commissioni su prodotti per la sicurezza (assicurativi di varia natura), su servizi per l’internazionalizzazione delle imprese e commissioni per la disintermediazione bancaria delle imprese che saranno accompagnate a raccogliere credito e capitale direttamente sul mercato. In più una accelerazione decisa sul private banking, dove Mps ha una quota di mercato del 2 per cento contro l’8 per cento che ha nella raccolta e negli impieghi. Tutto questo però non basterà per «ricomprarsi l’indipendenza ». Il resto lo faranno i costi, che dovranno scendere rapidamente e massicciamente. Con l’outsourcing del back office (prima banca italiana a fare questa scelta), con una riduzione del personale di 4.600 unità attraverso le cessioni, i pensionamenti (800 unità) e le uscite incentivate (100 dirigenti e 500 tra funzionari e impiegati), con la chiusura – anche questo un inedito, fino a ieri gli sportelli non si chiudevano ma si vendevano di 400 sportelli, e con una riorganizzazione profonda dei processi e una balzo deciso verso la multicanalità anche con la creazione di una nuova banca online di terza generazione. «A regime – dice Profumo – avremo un ritorno del 7 per cento sul capitale investito, che non è esaltante ma partendo da zero, in tre anni, è un risultato importante ». 630 milioni di utile netto nel 2015 con il cupo scenario previsto, se poi l’economia dovesse andare meglio i numeri potrebbero crescere di conseguenza. L’impegno, di qui ad allora, è restituire almeno 3 miliardi dei Tre-Monti Bond e 30 miliardi alla Bce: se Viola e Profumo ci riusciranno l’indipendenza sarà stata riconquistata. Non sarà però un percorso facile e gli ostacoli non mancheranno, a partire da quelli sindacali, per la disdetta del contratto integrativo aziendale, la riduzione del 5 per cento degli stipendi per 12 mesi, gli esodi, l’outsourcing del back office e la chiusura degli sportelli, tutti bocconi difficili da digerire. Vedremo come si concluderà la sfida. Intanto però è importante cogliere i segnali. Mps è in una situazione di particolare difficoltà nel panorama bancario italiano, ma i problemi di fondo sono comuni a tutti. Il primo è l’eccesso di credito rispetto alla raccolta, che è l’altra faccia dell’eccessiva dipendenza delle imprese italiane dal credito bancario (l’85 per cento del loro fabbisogno rispetto al 60-65 per cento di Francia e Germania) verso la cui riduzione spinge anche Basilea III. Il secondo è il sovradimensionamento delle strutture, della rete di sportelli e alla fine dei costi. L’Italia è il paese europeo che ha il maggior numero di sportelli per abitante, il che risponde ad una cultura della distribuzione ancora novecentesca che poco ha a che fare con la diffusione di Internet e della multicanalità. Il terzo segnale è la riscoperta dei servizi, che nei paesi nostri competitori contribuiscono assai più che in Italia al conto economico delle banche. Più tecnologia vuol dire meno costi, meno carta, servizio migliore e più trasparenza. La strada ormai è quella. Sapendo che ha un prezzo: aumentare la produttività è indispensabile e darà i suoi frutti nel tempo, nel breve periodo però è pro ciclica, e il ciclo che stiamo vivendo purtroppo non è dei migliori.

Fonte: Affari e Finanza del 2 luglio 2012

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