• domenica , 24 Novembre 2024

Banchieri d’assalto alla roulette dei mercati

Nei giorni scorsi Barclays, una delle maggiori banche inglesi e internazionali, è stata multata dalle autorità inglesi e americane per quasi mezzo miliardo di dollari per avere manipolato le informazioni fornite alle associazioni bancarie nazionale ed europea per la determinazione dei tassi Libor ed Euribor, che sono i tassi di riferimento per la determinazione dei tassi d’interesse su prestiti e operazioni in derivati per qualcosa come mille trilioni (milioni di milioni) di dollari, più di quattordici volte il Pil mondiale. Contrariamente alla pratica usuale in questi casi – nei quali i grandi attori finanziari pagano senza ammissione di colpa – la banca ha pagato riconoscendosi colpevole. Vale la pena di richiamare i capi d’imputazione formulati al riguardo dalla Financial Services Authority inglese (FSA), che sono tre. Il primo consiste nell’aver manipolato le proprie comunicazioni al fine di favorire i traders in derivati propri e di altre banche colluse. Il secondo consiste nell’aver manipolato le comunicazioni per migliorare la propria immagine sul mercato, dato che alti tassi possono corrispondere a una percezione di rischio più elevata della banca sul mercato interbancario. Il terzo consiste nell’aver mancato di correggere, attraverso i meccanismi interni di compliance, tali storture, nonostante ripetute segnalazioni dall’interno e dall’esterno della banca, nascondendo anche l’informazione alla Fsa. Al gioco partecipavano altre tra le maggiori banche internazionali

attive sulla piazza di Londra, che ora sono anch’esse sotto inchiesta (tra di loro non figurano banche italiane). Si tratta di un fatto gravissimo, di cui è difficile esagerare la portata: un imbroglio che ha portato guadagni considerevoli nelle casse delle banche coinvolte, ai danni di investitori e risparmiatori. Avviene in una banca che si è segnalata, ed è per questo in attesa di una multa multimilionaria, per aver promosso aggressivamente tra i suoi clienti inglesi e internazionali pratiche di elusione fiscale. Questo scandalo segue a poca distanza quello che aveva investito JPMorgan Chase per le operazioni in derivati. Anche qui, la storia appare tecnicamente complicata, ma la sostanza è piuttosto semplice. La banca americana anch’essa, come Barclays, sopravvissuta senza troppi danni alla crisi finanziaria del 2008-09 – aveva investito qualcosa come 62 miliardi di dollari dei depositi dei risparmiatori, assicurati dalla Fdic, nell’acquisto di obbligazioni corporate, procedendo poi, almeno nelle intenzioni dichiarate, a coprire tale posizione attraverso la vendita (sotto prezzo) di credit default swaps – ancora loro! – su un indice di obbligazioni corporate, un po’ come aveva fatto la società di assicurazione Aig, poi salvata dal fallimento con la nazionalizzazione proprio per le enormi perdite su queste operazioni. Come se non bastasse, la banca si è poi coperta contro il rischio delle proprie coperture. L’ammontare delle perdite che stanno emergendo indica che non si trattava di coperture, ma di scommesse. La nuova Volcker rule americana, peraltro non ancora entrata in vigore, che doveva vietare alle banche le scommesse in conto proprio, era già stata modificata su pressione della lobby bancaria per lasciare che queste operazioni di hedging su interi portafogli ne fossero esentate. A un certo punto, questo accrocchio ha incominciato a perdere denaro; in poco tempo le perdite sono salite a vari miliardi di dollari, neppure la banca sa ancora esattamente quanto, perché la posizione è così complessa (e opaca) che potrà esser smontata solo poco a poco. Poiché inoltre le perdite dipenderanno anche dalla capacità del mercato di assorbire le operazioni di smobilizzo, JPMorgan non ha comunicato al mercato la consistenza e la composizione di questo portafoglio composito né le perdite già realizzate, alla faccia della trasparenza e dell’integrità del mercato. La stessa banca si è anche segnalata per la vendita dei propri fondi ai suoi clienti a prezzi elevati; l’International Herald Tribune ha riportato che oltre il 40 per cento di tali fondi hanno poi registrato performance inferiori a quelle di prodotti comparabili sul mercato. Per alcune grandi banche internazionali le operazioni in derivati rappresentano quote molto elevate dell’attivo (e del passivo), in alcuni casi vicine o superiori al 50 per cento. Esattamente quale sia la natura di queste esposizioni e dei rischi connessi, è poco chiaro; certo, solleva stupore che la metà delle attività di queste grandi banche sia dedicata a operazioni di copertura o di scommessa, invece che a impieghi tradizionali. Non è chiaro né quali rischi esse implichino per la stabilità finanziaria, né quale sia il loro contributo al buon funzionamento dell’economia. In generale, non sembra sia cambiato molto nella cultura che aveva portato il sistema finanziario vicino al collasso solo pochi anni fa. Il cuore del problema era, e resta, il fatto che alcune grandi banche universali cross-border si sono trasformate in macchine gigantesche per scommesse alla roulette dei mercati in conto proprio, perché questa è l’attività che garantisce i massimi profitti quando va bene, e quando va male paga qualcun altro: il contribuente. Nel suo bellissimo volume sulla crisi finanziaria, Fault Lines, Raghuram Rajan discute le motivazioni di questi finanzieri d’assalto – che quando erano suoi studenti parevano studenti uguali agli altri – concludendo che i loro comportamenti scaturiscono dalla natura stessa dell’attività: perché è l’unico campo in cui la misura del successo è solo il denaro, non c’è un prodotto per il quale si viene ricompensati; e perché l’unico modo di “battere il mercato” sistematicamente è di prendere rischi crescenti moltiplicando allo spasimo la leva sul capitale proprio. Per molto tempo i regolatori hanno assistito a questo gioco e non lo hanno contrastato; le nuove regole di Basilea, che continuano a lasciare alle banche stesse la decisione sul grado di indebitamento, non hanno cambiato molto. Lo aveva anticipato con un brillante editoriale sul Financial Times Luigi Zingales l’11 giugno scorso (“ Why I was won over by Glass-Steagall”). La tesi è stata fatta propria dall’autorevole quotidiano nel suo editoriale di testa del 4 luglio (“ Restoring trust after Diamond”). C’è poco da discutere: la commistione di attività di banca d’investimento e banca commerciale non è compatibile con la tutela dei risparmiatori, degli investitori e delle imprese, né con la stabilità finanziaria. Le risposte regolatorie alla crisi finanziaria seguite fin qui sono insufficienti: bisogna ritornare a un sistema tipo Glass-Steagalldi separazione strutturale tra le due forme di attività; occorre anche ridimensionare i gruppi bancari divenuti troppo grandi rispetto ai mercati nei quali operano.

Fonte: Affari e Finanza del 9 luglio 2012

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