Redditività zero. Capitale insufficiente. Produttività scarsa. Ci vuole un allenamento alla Rocky Marciano, molta sofferenza e molta determinazione, per riportare al livello di competizione una banca con le difficoltà del Monte dei Paschi di Siena. «Intanto io faccio 115 scalini ogni giorno e parecchi chilometri la settimana», ironizza Alessandro Profumo, arrivato alla presidenza della banca senese ad aprile a completare il nuovo team di comando con il direttore generale Fabrizio Viola, al lavoro già da gennaio. Le scale sono quelle che lo portano ogni sera nel suo appartamento con vista su Piazza del Campo, set immutabile di un ideale cittadino andato invece in frantumi, con il Comune commissariato, il Pd, partito che qui ha sempre comandato, corroso da veleni intestini, e la Fondazione del Monte, quella che un tempo teneva tutto insieme, senza più un soldo.
I chilometri, sono quelli che il cinquantacinquenne ex capo di Unicredit percorre dal Veneto alla Sicilia per spiegare a dipendenti e clienti dove li vuole condurre.
Sulla banca che era l’incarnazione del modello senese Profumo non nasconde le difficoltà: l’istituto deve innanzitutto dimagrire, e poi andare a cercare nuovi fronti su cui guadagnare. Il cammino è segnato da un piano strategico appena approvato, che punta al 2015 per vedere un ritorno alla redditività del capitale del 7 per cento dallo zero attuale, dopo aver restituito il prestito di 3,9 miliardi ricevuto dal governo. In mezzo, una cura bella tosta fatta di vendite di attività e chiusura di sportelli.
Dal vertice dell’associazione bancaria Giuseppe Mussari ha accusato il governo di non essere tenero con il settore. Eppure a voi il governo si prepara a dare bei soldi per coprire la carenza di capitale: condivide quel giudizio?
«Sì. Non c’è dubbio che gli interventi dello Stato abbiano inciso sui nostri ricavi. Per quanto ci riguarda, è vero che abbiamo una carenza di capitale rispetto alla richiesta dell’Eba (l’authority europea delle banche, ndr.) ma questa nasce dalla minusvalenza sui 27 miliardi di titoli di Stato che possediamo, che hanno perso valore con l’allargamento dello spread».
Ventisette miliardi sono una cifra enorme.
«Sono d’accordo, io non li avrei comprati. Ma il dato serve a far capire che la banca è solida: quando a settembre 2011 l’Eba ci ha chiesto di colmare una carenza di capitale di 3,3 miliardi, la minusvalenza sul portafoglio dei titoli di Stato era di 3,4 miliardi. Morale: è vero che lo Stato ci dà dei soldi, ma è anche vero che la nostra carenza di capitale nasce da un credito che abbiamo verso lo Stato stesso».
Però avevate già fatto due aumenti di capitale e incassato 1,9 miliardi dei Tremonti bond eppure la banca è rimasta con il fiato corto.
«Se non ci fosse stata la richiesta dell’Eba, saremmo stati a posto. E poi 2,6 miliardi li abbiamo coperti con le nostre gambe, con le dismissioni. E non abbiamo minusvalenze sui mutui come banche di altri paesi».
Resta il fatto che la Fondazione, azionista di controllo, ha dovuto cambiare il vertice della banca: sia lei che Viola siete atterrati a Siena come due marziani, in totale discontinuità con il passato.
«Se parliamo della qualità della gestione, questa è una banca con redditività nulla. Ed è importante non illudersi che, risolto il problema del capitale, tutto sia a posto: non è vero».
Lei ha votato per Mussari, responsabile della vecchia gestione, alla presidenza dell’Abi?
«La banca ha votato per lui».
Qual è il difetto principale del Monte?
«Una struttura di costi alti, reti distributive troppo pesanti per quello che oggi il mercato può sostenere; un bilancio troppo grande: ogni 100 euro di depositi da clienti abbiamo 130 euro di impieghi. I 30 aggiuntivi nel passato ce li davano i fondi pensione e la compagnie di assicurazione, che oggi non comprano più le obbligazioni bancarie. Ha coperto questa passività la Bce (la banca ha attinto ai prestiti Bce per 30 miliardi , ndr.), ma adesso bisogna trovare un nuovo equilibrio. Il Piano strategico riduce l’attività del bilancio: questo significa meno ricavi da margine di interesse, dunque occorrerà tagliare i costi e lavorare per ottenere ricavi da nuovi servizi. Obiettivo complesso in una struttura con un basso orientamento a premiare il merito».
Stipendi troppo alti?
«Piuttosto uguali per tutti: se voglio premiare qualcuno, il contratto integrativo aziendale mi obbliga a premiare anche gli altri. E detta legge su avanzamenti di carriera, provvidenze per i trasferimenti, permessi sindacali abnormi. Tutto questo andrà rivisto».
Perché ce l’ha con i permessi sindacali?
«Perché sono il doppio rispetto alle altre banche».
Come farà a ridurre il costo del lavoro?
«La banca ha più personale di quanto dovrebbe: non ce lo possiamo più permettere. Abbiamo cento dirigenti di troppo».
Che cifra deve tagliare?
«Seicento milioni, di cui la metà è costo del lavoro. Ma una parte si sposta nella voce “altri costi”: sono i 2360 colleghi del back office che vanno a lavorare in una società che ci venderà i suoi servizi».
Il meccanismo circolare sindacato-politica-banca si è spezzato definitivamente?
«Con me certamente sì: si è capito che la banca non riuscirebbe a restare indipendente. E che se la Fondazione vuole ritornare ad avere un flusso di dividendi da usare sul territorio non ci sono alternative».
Cosa intende per indipendenza a rischio?
«Se non torna una redditività accettabile la banca dovrà aggregarsi con qualcuno: la Fondazione serebbe obbligata a far aggregare la banca per ripagare i debiti che ha, e sarebbe un peccato».
Eppure mettete in programma l’arrivo di partner, visto che il Piano prevede un aumento di capitale di un miliardo. A chi si riferisce?
«Molto dipende dal mondo fuori di noi: se lo spread scenderà a 200 punti (come il Piano prevede nel 2015, ndr.) tutti i problemi del capitale della banca sarebbero risolti. Per un investitore può essere una opportunità investire 100 per un pezzo del capitale che può valere 150. Ci sono soggetti che lo fanno di mestiere. Il che non vuol dire perdere l’indipendenza».
I sindacati hanno capito i rischi?
«Penso di sì. D’altra parte se non siamo noi a fare gli interventi necessari, a un certo punto arriverà qualcuno che i cambiamenti li farà davvero. E la direzione generale da qui scomparirà».
Lei comincia tagliando il back office: ma non è lì il cuore dell’attività?
«La banca evolve verso la formula “meno carta”. Ormai non siamo più in grado di saturare l’attività del back office. Per questo dei 4600 tagli che dobbiamo fare 2300 vengono da lì. Ma non restano per strada: li traferiremo in una società che continuerà a lavorare per noi, ma anche per altri. Stiamo trattando con due soggetti per selezionare l’offerta migliore».
E gli altri?
«Sono nelle società da vendere, pensionamenti secondo la legge Fornero, normale turn over; poi faremo 400 assunzioni».
E con i cento dirigenti di troppo che farete?
«Intanto rivediamo la politica dei compensi con criteri più meritocratici».
Vuol dire che qualcuno può vedersi ridurre lo stipendio: e se non accetta?
«Vuol dire che non fa al caso nostro, e i dirigenti si possono licenziare».
Quando parla di nuovi servizi, a cosa pensa?
«Ai nostri sei milioni di clienti non vendiamo tutti i servizi che abbiamo. Eppure abbiamo banche dati che del cliente sanno molto: se ha bisogno di un’assicurazione, se sta per scadere il suo bollo d’auto… Servono persone con l’innovazione in testa».
Il machete sugli sportelli: ci sono aree che sofriranno di meno, magari per opportunità “politica”?
«Chiudiamo 400 sportelli con il criterio della sovrapposizione (solo i 750 che escono con Biverbanca, che verrà venduta alla Cassa di risparmio di Asti, sono concentrati tra Biella e Vercelli). Ma penso che la destabilizzazione maggiore sarà qui al centro, nelle teste delle persone».
Che cosa vuol dire?
«Qui ci sono più di 4000 persone per la gestione commerciale che non vedono mai un cliente: dovranno cominciare a farlo».
In Unicredit lei ha perseguito un modello di banca internazionale, ora ha a che fare con una banca più territoriale: quale funziona meglio?
«In Unicredit sono partito da un progetto di banca italiana, e solo dopo, per continuare a crescere, ho dovuto guardare fuori dall’Italia. Qui è diverso: il nostro punto di forza è il rapporto con la clientela, che Unicredit non aveva. Qui le radici sono più robuste, e non solo a Siena o in Toscana: Mps è forte nel Lazio, in Lombardia, nel Sud. Ha un brand molto riconoscibile, ed è su queste radici che occorre lavorare».
Niente fughe dei conti?
«No. Sono andati via alcuni clienti istituzionali. Ma il retail è rimasto fedele».
Lei ha dichiarato che non ci sono alternative al suo piano di rilancio: perché non esiste un piano B?
«Perché se lo scenario europeo dovesse peggiorare, non ci sarebbe un piano B per nessuno».
Come giudica lo scudo antispread in difesa dell’euro: è uno strumento efficace?
«Sì, anche se ancora meglio potrebbe funzionare il redemption fund in cui conferire la quota del debito pubblico che va oltre il 60 per cento».
Che fa in agosto, va in vacanza o condivide i timori di Monti sul «siamo in guerra»?
«Condivido i timori di Monti: andrò in vacanza, ma restando nelle vicinanze».
Lei ha detto che a 60 anni avrebbe smesso di fare il banchiere: non li ha ancora, ma come la mettiamo con il 2020, orizzonte che si è dato per far risorgere davvero la banca?
«Ho detto che avrei smesso di fare il numero uno operativo: infatti oggi faccio il presidente. Ho smesso in anticipo».
Senza tagli, addio al Monte
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