Si cominciano a toccare con mano i segni della deflazione: depurato dagli indici di prezzi dei beni il cui andamento caratterizzato da una forte volatilità (generi alimentari, petrolio), il tasso di aumento dei prezzi al consumo negli Usa, in Giappone e in Eurolandia è passato dal 4,5 per cento del 1991 a quasi zero nei primi tre mesi del 2010. Con prezzi congelati o in ribasso, ci si dovrebbe rallegrare in tutti quei Paesi dove sono state messe in atto manovre di finanza pubblica che bloccano (per alcuni anni) stipendi e salari per varie categorie di lavoratori .La deflazione, però, contiene insidie maggiori dell’inflazione. In primo luogo, è una tassa iniqua: colpisce la categorie deboli più delle altre. L’aspettative di ulteriore calo dei prezzi induce i consumatori a ritardare gli acquisti, causando un calo della domanda e una perdita d’occupazione (e di reddito) nei settori pi fragili. In secondo luogo, mentre nell’ultimo quarto di secolo i ministeri dell’economia e le banche centrali (e gli stessi economisti) hanno appreso come contenere e gestire l’inflazione, la deflazione è un fenomeno di cui pochi hanno esperienza. La sola recente quella in corso da oltre dieci anni in Giappone ci dice che né gli economisti né i banchieri centrali né i politici sanno venire a capo di un male con tutte le caratteristiche di essere oscuro.
La deflazione nell’area dell’euro presenta una caratteristica: è un danno collaterale di una strategia comune diretta a mantenere in vita l’unione monetaria e a ridurre squilibri di finanza pubblica di alcuni Stati della zona che potrebbero compromettere l’intero disegno. A una strategia comune deve corrispondere una risposta comune; andando in ordine sparso, i singoli Stati dell’area rischierebbero di aumentare i danni con misure di protezionismo nascosto.
Crediamo che una strategia Ue per contenere la deflazione nell’unione monetaria possa essere efficace (anche se non risolutiva) se contiene tre ingredienti. Anzitutto una liberalizzazione dei mercati dei prodotti e dei servizi. E una materia che, in quasi tutta l’unione monetaria, di competenza non degli Stati centrali ma degli enti decentrati (Regioni e soprattutto Comuni). In molti Paesi dell’area (ad esempio Francia e Germania) le rigidità livello locale sono pi stringenti che in Italia ed applicate da amministrazioni pi rigorose e meno propense a deroghe. Una direttiva europea, accompagnata da una campagna di persuasione che metta l’accento sui costi e sui rischi di liberalizzazioni mancate o tardive, potrebbe avere effetto, specialmente se prevede una “premialità europea” per gli enti che liberalizzano prima e meglio.
In secondo luogo , servirebbe un regolamento europeo su cosa considerare investimento pubblico a lungo termine . Il regolamenmto dovrebbe definire tale quello in capitale fisso sociale ed in ricerca (senza estenderlo a capitale umano e sociale in quanto la spesa per l’istruzione e la sanità molto vasta e di parte corrente). In tal modo si potrebbe progettare una revisione del “patto di stabilità per esentare questo investimento pubblico a lungo termine dai vincoli di bilancio.
Infine è necessaria una prassi europea per utilizzare i risultati positivi della lotta all’evasione tributaria in termini di maggiore entrate allo scopo di ridurre le aliquote fiscali. Alberto Alesina ha calcolato che in Italia l’aliquota marginale di coloro che assolvono agli obblighi tributari non il 43 per cento ma circa il 60 per cento, proibitiva per chiunque voglia operare. Già tre lustri fa, Pier Luigi Cioccia si chiedeva come si può ai tempi dell’integrazione economica internazionale, competere con aree del mondo in cui la pressione fiscale non supera il 30 per cento.
Strategia in tre mosse contro l’insidia deflazione
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