Con la riunione di ieri del Consiglio dei ministri il governo ha pigiato l’ acceleratore sul federalismo fiscale. Lo ha fatto per onorare la scadenza del 30 giugno prevista dalla legge delega e per riallacciare il dialogo con le Regioni virtuose. I maliziosi potranno sostenere che la scelta è anche figlia delle polemiche seguite al caso del neo ministro Aldo Brancher (ieri assente) e alla necessità dell’ esecutivo di riprendere quel bandolo della matassa che sembrava sfuggito di mano al premier e non solo a lui. Ma la decisione di dedicare quasi un’ intera seduta del consiglio al federalismo è anche una rassicurazione offerta alle inquietudini del popolo di Pontida, che si conferma come il vero proprietario della golden share della politica italiana. E non è certo un caso che, in assenza di Silvio Berlusconi impegnato in Brasile, a presiedere i lavori – dalle 18.40 come recita il comunicato ufficiale – sia stato Umberto Bossi. Potenza dei simboli. Fermarsi però ad analizzare in chiave esclusivamente politicista la novità di ieri sarebbe un errore. Non va dimenticato, infatti, che dietro la riunione e la relazione del ministro Giulio Tremonti c’ è un anno di duro lavoro della commissione Antonini. In questi dodici mesi, almeno dal punto di vista conoscitivo, la finanza pubblica ha fatto importanti passi in avanti. Tanto da stupire, caso mai, che un’ indagine di quel tipo non fosse stata programmata in precedenza. Basti pensare che i documenti di bilancio delle 15 Regioni a statuto ordinario vengono redatti con criteri l’ uno diverso dall’ altro. E in qualche caso c’ è il legittimo sospetto che questa singolare contabilità à la carte serva in realtà a nascondere tecniche di derivazione greca. La relazione Tremonti ha messo un punto fermo sul metodo che si seguirà per determinare i cosiddetti costi standard, ovvero quanto dovrà spendere ciascuna Regione per remunerare la stessa prestazione o acquistare lo stesso bene. Si batterà la strada praticata con gli studi di settore che, nonostante una certa letteratura avversa e qualche critica improvvisata, rimangono comunque lo strumento con il quale lo Stato gestisce da anni l’ incremento del gettito fiscale del lavoro autonomo. Il tutto in accordo con le associazioni di categoria e non in conflitto. Qualcosa del genere avverrà anche con gli enti locali chiamati a definire un percorso condiviso che alla fine però dovrà produrre risparmi di spesa. Servirà a cancellare le anomalie più scandalose. Dovrà dimostrare che il federalismo o si rivela un vantaggio in termini di sostenibilità dei bilanci o altrimenti è un tradimento. In questo modo la regola per gli amministratori diventa che solo se spendi di più (dello standard) sarai costretto, a tuo rischio e pericolo, ad aumentare le tasse. E al contrario se spendi di meno potrai addirittura ridurle. Lo stesso Tremonti ha messo comunque le mani avanti dicendo che l’ avvio del federalismo sarà scandito da ulteriori dieci tappe ed è realistico sottolinearlo anche due volte. Perché di fronte a cambiamenti così radicali del modo di far politica e di produrre consenso la legittima domanda di chiunque non voglia chiudere gli occhi suona così: abbiamo una classe politica locale, specie al Sud, disposta a rimettersi totalmente in gioco, a far segnare una così forte discontinuità nel modo di amministrare la cosa pubblica? E ancora: la selezione che avviene nei partiti è orientata a produrre una tipologia di nuovo ceto politico? È vero che gli scettici non hanno mai cambiato la realtà ma le domande giuste bisogna pur continuare a farsele.
Fonte: Corriere Sera del 1 luglio 2010Una Buona Partenza
L'autore: Dario Di Vico
Commenti disabilitati.