Un manifesto per sostenere che l’attuale ottica delle politiche economiche basate sul “rigore” è completamente sbagliata e porterà alla deflazione e forse alla fine dell’Unione Europea. Proposte alternative per far ripartire l’economia.Le “politiche dei sacrifici” non serviranno a risolvere la crisi, anzi la faranno precipitare e provocheranno anni di deflazione e probabilmente la fine dell’Unione europea. Ad affermarlo è una lettera-manifesto sottoscritta da cento economisti che propone soluzioni radicalmente diverse da quelle che si stanno attuando in particolare in Europa. L’iniziativa è stata promossa da Bruno Bosco (Università di Milano Bicocca), Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Roberto Ciccone (Università Roma Tre), Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), Antonella Stirati (Università Roma Tre) e tra chi ha già aderito si leggono i nomi dei più autorevoli economisti italiani di orientamento progressista.
L’attuale instabilità dell’Unione, dice il documento, è il frutto “dell’insostenibile profilo liberista del Trattato e dell’orientamento di politica economica restrittiva dei paesi membri caratterizzati da un sistematico avanzo con l’estero”. La crisi mondiale è tuttora in corso perché non si sono affrontate le sue cause strutturali, prima fra tutte “l’allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori”. Una crisi da domanda, dunque. L’Europa, poi, soffre di un sistematico squilibrio tra paesi che accumulano forti avanzi commerciali, la Germania prima di tutti, e paesi – quasi tutti gli altri – che tendono a indebitarsi sempre più. “In un simile scenario riteniamo sia vano sperare di contrastare la speculazione tramite meri accordi di prestito in cambio dell’approvazione di politiche restrittive da parte dei paesi indebitati. I prestiti infatti si limitano a rinviare i problemi senza risolverli. E le politiche di “austerità” abbattono ulteriormente la domanda, deprimono i redditi e quindi deteriorano ulteriormente la capacità di rimborso dei prestiti da parte dei debitori, pubblici e privati”.
In questa situazione, vari paesi “potrebbero esser forzatamente sospinti al di fuori della Unione monetaria o potrebbero scegliere deliberatamente di sganciarsi da essa per cercare di realizzare autonome politiche economiche di difesa dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione.(…) La verità è che è in atto il più violento e decisivo attacco all’Europa come soggetto politico e agli ultimi bastioni dello Stato sociale”.
Le proposte per uscire dallo stallo vanno completamente controcorrente rispetto alle idee-guida degli ultimi trent’anni su come debba funzionare l’economia.
– Il processo di aggiustamento ha bisogno di tempo, quindi bisogna innanzitutto frenare la speculazione. La Bce si impegni pienamente ad acquistare i titoli sotto attacco, rinunciando a “sterilizzare” i suoi interventi. Si varino imposte per disincentivare le transazioni finanziarie a breve termine e controlli amministrativi sui movimenti di capitale. Se non vi fossero le condizioni per operare in concerto, meglio intervenire subito a livello nazionale che non far nulla.
– Evitare il tracollo del monte salari, rafforzando i contratti nazionali, minimi salariali, vincoli ai licenziamenti e nuove norme generali a tutela del lavoro e della sindacalizzazione.
– Aumentare la progressività fiscale in modo coordinato a livello europeo, per invertire la tendenza alla sperequazione sociale e territoriale che ha contribuito a scatenare la crisi. Spostare i carichi fiscali dal lavoro ai guadagni di capitale e alle rendite, dai redditi ai patrimoni, dai contribuenti con ritenuta alla fonte agli evasori, dalle aree povere alle aree ricche dell’Unione.
– Ampliare il bilancio federale dell’Unione ed emettere titoli pubblici europei. Coordinare le politiche fiscali e la politica monetaria europea finalizzandole a un piano di sviluppo per la piena occupazione e al riequilibrio territoriale non solo delle capacità di spesa, ma anche delle capacità produttive in Europa. Il piano deve fondarsi in primo luogo sulla produzione pubblica di beni collettivi, dal finanziamento delle infrastrutture pubbliche di ricerca per contrastare i monopoli della proprietà intellettuale, alla salvaguardia dell’ambiente, alla pianificazione del territorio, alla mobilità sostenibile, alla cura delle persone. Sono beni che al mercato non interessano, ma sono indispensabili per lo sviluppo.
– Ripristinare il principio di separazione tra banche di credito ordinario, che prestano a breve, e società finanziarie che operano sul medio-lungo termine.
– Condizionare la piene apertura dei mercati, dei capitali e delle merci, all’attuazione da parte dei paesi extra-Ue di politiche convergenti di miglioramento degli standard del lavoro e dei salari, e politiche di sviluppo coordinate.
Questo in sintesi il documento. I firmatari si dicono consapevoli dell’enorme distanza tra queste proposte e le idee tuttora prevalenti, ma insistono sul fatto che queste ultime non potranno che avere esiti disastrosi. Invitano perciò il governo a farsi promotore in Europa di queste istanze. Se “non sortissero effetti, la crisi della zona euro tenderà a intensificarsi e le forze politiche e le autorità del nostro paese potrebbero esser chiamate a compiere scelte di politica economica tali da restituire all’Italia un’autonoma prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione”.
Crisi, cento economisti:”Così si va a picco”
Commenti disabilitati.