• domenica , 24 Novembre 2024

Un’idea attuale di giustizia

E’esercizio non scontato, o di puro affetto amicale, ricordare a tutti coloro che si occupano delle difficili vicende della giustizia italiana la figura e la testimonianza di Adolfo Beria d’Argentine scomparso dieci anni fa. Una testimonianza che è ancora eloquente, incardinata come era in un lungo percorso umano e professionale, che aveva voluto rendere leggibile a tutti attraverso la sua ventennale collaborazione al Corriere, ma con cui ha dovuto confrontarsi tutta la classe dirigente italiana dagli Anni 50 al 2000. Una testimonianza di cui è opportuno registrare i cinque elementi essenziali, utili per parlare dell’attualità.
Anzitutto la tensione a collegare l’amministrazione della giustizia con la dinamica sociale («capire la società italiana in evoluzione » era il suo richiamo costante) nella consapevolezza che il magistrato deve aver coscienza del mondo che gli sta intorno e deve capire come cambiano identità, interessi, comportamenti, conflitti di tipo collettivo; altrimenti è soggetto cieco prima ancora che inerte. E per provare tale tensione basta riandare ai primi Rapporti del Consiglio superiore della magistratura (Csm) sull’amministrazione della giustizia, datati ’71 e ’72 cui mi associò con grande convinzione professionale.
Connessa a questa prima consapevolezza ce ne è una seconda, quella della assoluta necessità per il magistrato (e per l’ordine giudiziario) di avere testa fredda nei momenti caldi della società. «Conservare la testa fredda» era il suo imperativo costante, ancor più cogente nel periodo in cui come presidente dell’Associazione Magistrati fronteggiò il terrorismo con fredde strategie, anche quando gli decimavano gli amici più vicini e cari. Un imperativo che ripeterebbe oggi, anche se il calor bianco delle contrapposizioni è diventato solo politico.
Di qui era per lui facile passare a una terza convinzione, ancora oggi molto attuale: il giudice non deve «fare» giustizia ma «amministrare» la giustizia. Tutto lo sforzo innovativo di Beria sul mondo giudiziario si muoveva nella direzione di dare senso e prestigio all’amministrazione della giustizia, come protagonista istituzionale della regolazione costante dei comportamenti (anche conflittuali) dei soggetti sociali. Mai sovrapponendosi ad essi con il protagonismo ansioso di «fare giustizia».
C’era naturalmente in questo rifiuto del «fare giustizia» una quarta componente della sua testimonianza: l’esigenza e il bisogno collettivo della «terzietà», termine non molto di moda nell’attuale dinamica sociopolitica, tutta fatta di contrapposizioni così antagonistiche che chiunque si metta in mezzo rischia l’odio dell’una o dell’altra parte. Ma chi conosce la società italiana sa bene che una buona parte del diffuso disagio sociale di questo periodo viene dall’assenza di terzietà a tutti i livelli e in tutti i campi, un’assenza che vale soprattutto a delegittimazione della giustizia, dove, se non c’è terzietà, non ci sono le basi per la fiducia collettiva. Solo la terzietà del resto permette di non farsi coinvolgere da quel che avviene nella realtà circostante. Il mestiere del magistrato impone una comprensione del mondo senza appartenere ad esso, per cui una cautela e un distacco per le quotidiane contingenze sono sempre necessari.
A tal proposito Beria predicava la «insularità» del mestiere di magistrato, il saper essere solo senza dover dar conto del suo operare alla cerchia dei suoi amici, ai soci del suo circolo, ai sodali delle sue associazioni. Non ho conosciuto un magistrato più allegro e conviviale di lui, ma nessuno di noi amici ha mai avuto una parola o una smorfia del viso su un argomento che riguardasse il suo lavoro. Presa di coscienza della complessità sociale, tensione a conservare sempre testa fredda, amministrare e non fare giustizia, saper coltivare la terzietà, blindare la riservatezza sul proprio lavoro; questi i cinque basilari elementi della testimonianza di Beria, che lui rinviava a suo padre e suo nonno magistrati ma specialmente a colleghi come Bianchi d’Espinosa, Colli, Brancaccio. Pensando allo spessore di quella testimonianza credo che non ci si debba acquietare o inquietare se quegli elementi basilari sembrano oggi messi in ombra dai combattimenti che tagliano orizzontalmente il mondo della giustizia italiana. Essi infatti (lo dico da antico attento spettatore delle vicende giudiziarie italiane) non appartengono alla cultura di un periodo e meno ancora all’azione di una persona; sono invece la vera e grande lunga deriva su cui non può non camminare, oggi e domani, la istituzione giustizia, se vogliamo che essa riacquisti la sua legittimità sociale e politica.

Fonte: Corriere della Sera del 27 luglio 2010

Articoli dell'autore

Commenti disabilitati.