Commentando i dati Istat sul Pil il ministro Renato Brunetta ieri ha avuto il coraggio di indicare implicitamente un target: da qui al 2011 dobbiamo crescere a un ritmo del 2%. Ha poi aggiunto che il +1,1% fatto registrare nel secondo trimestre 2010 dimostra che siamo già sulla buona strada. E proprio così? O Brunetta pecca di generosità? Francamente è presto per dirlo, perché senza voler sottovalutare (anzi) il dato del Pil e quello ancora più incoraggiante relativo alla produzione industriale di giugno (+8,2% rispetto a un anno fa), possiamo sì affermare che stiamo uscendo dalla crisi, ma non possiamo ancora sostenere di esser guariti da quella malattia che ci ha visto crescere per anni al ritmo dello «zero e qualcosa». La velocità è dunque decisiva e la prossima settimana, quando avremo dall’ Eurostat il quadro riepilogativo dei nostri partner, potremo fare le dovute comparazioni. Oggi, in base ai dati resi noti, sappiamo che stiamo uscendo dalla recessione più velocemente degli spagnoli e più lentamente di inglesi e americani. Qualcosa vorrà pur dire. Se non altro si conferma una certa attitudine del mondo anglosassone a vivere cicli di caduta e risalita più ravvicinati e intensi. E’ giudizio pressoché unanime che il merito della ripartenza dell’ economia sia innanzitutto delle imprese esportatrici, di quelle che si sono saldamente rimesse nella scia dell’ industria tedesca, di quelle che hanno cominciato a vendere nei Paesi emergenti e di quelle che, approfittando del dollaro forte dei mesi scorsi, sono riuscite a portare a casa qualche buona performance negli States. Ma a dimostrazione che la via della ripresa è lastricata di contraddizioni basta ragionare sull’ andamento dell’ euro. Nei mesi scorsi scendendo nei confronti del dollaro ha aiutato il made in Italy, adesso però per effetto delle politiche di risanamento dei governi della Ue la moneta comune è risalita e la tendenza è stata interpretata positivamente dai commentatori, che hanno visto allontanarsi l’ ombra della speculazione. Per le nostre aziende però è ridiventato difficile vendere negli Usa. La metafora dell’ euro ci porta dritto al nodo irrisolto dello sviluppo italiano. Come conciliare le sacrosante politiche del rigore con una crescita sostenuta, come quella indicata da Brunetta? Molti sono convinti che la coesione sociale – bene che va tutelato specie in vista di una forte turbolenza politica autunnale – dipenda proprio dalla combinazione di quei fattori e non a caso gli stessi guardano con una certa apprensione alle decine di crisi aziendali irrisolte, alle numerose aziende «lungodegenti». Sulla scia di queste preoccupazioni una tendenza che va prendendo piede in ambienti assai diversi tra loro chiede un mix di interventi tra politica industriale e liberalizzazioni. Il ministro Giulio Tremonti, dal canto suo, ha di fatto risposto che in fondo un ministro dello Sviluppo economico non serve, «c’ è già quello della Semplificazione». E ha subito dopo aggiunto che l’ unico capitolo di spesa che riaprirebbe riguarda la ricerca. Ma quest’ ultima, come del resto la politica delle infrastrutture, tra i mille pregi ha un difetto non trascurabile: i risultati arrivano dopo anni. E l’ Italia ha bisogno di riprendere a correre presto, molto presto. Dopo le ferie varrà la pena discuterne, con la stessa passione oggi riservata ad altre materie.
Fonte: Corriere della Sera del 7 agosto 2010Serve uno scatto
L'autore: Dario Di Vico
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