Un principio che deriva dalla logica matematica indica che quando i vincoli superano le opportunità i problemi sono insolubili. Il Governo ha affrontato questa situazione e non sorprende che le reazioni siano state di insoddisfazione perché si pensa che la crescita dipenda solo dalle sue scelte e non da quelle private; gli imprenditori, infatti, devono investire guardando alle possibilità dei mercati esteri e i lavoratori devono garantire un quadro che renda possibile il loro realizzarsi. Al Governo spetta il compito di creare un quadro di stimoli che inducano gli uni e gli altri a fare e fare bene. Le liberalizzazioni appaiono lo stimolo più efficace, anche quelle più temute da entrambe le forze produttive e dalla politica.
Dati i vincoli istituzionali europei, che lo stesso ministro dell’Economia ha ricordato, e quelli della concorrenza globale, non di rado ignorati dalla pubblica opinione, la linea di azione scelta dal Governo per crescere di più è quella di liberalizzare l’attività economica senza incorrere in nuovi oneri per il bilancio statale; di questa parte della manovra non conosciamo però i contenuti, ma solo il presupposto, ossia la modifica dell’art. 41 della Costituzione dove si dice che si può fare tutto, escluso ciò che è proibito. Se la macchina delle liberalizzazioni si mette in moto rapidamente e con chiarezza, nel giro di un paio di anni la crescita certamente ne beneficerà. Considerando però le reazioni alla manovra di Governo viene il dubbio che il Paese voglia lo sviluppo per sé e l’occupazione per i figli continuando come prima, ossia puntando sull’assistenza pubblica senza ricercare i modi per aumentare la produttività. Questo resta l’unico obiettivo da perseguire per non retrocedere nei livelli di reddito. Le liberalizzazioni, infatti, abbattono le rendite e stimolano la produttività.
Liberalizzare significa anche deregolare l’attività economica e questa riguarda anche la sburocratizzazione della pubblica amministrazione centrale e periferica. Per esempio, il provvedimento che avrebbe permesso la crescita della spesa privata nell’edilizia abitativa è ancora al palo della burocrazia, mentre avrebbe potuto sospingere la domanda interna e l’occupazione.
Autocertificazioni, sportello unico e procedure più snelle sono state più volte promesse alle imprese e alle famiglie, ma, salvo rare eccezioni, regolarmente disattese. Nelle sue memorie Guido Carli scrisse che nel dopoguerra la parola mercato non aveva per gli italiani nessun significato; pur essendo immersi da oltre mezzo secolo in questo regime che ci ha dato benessere, essa non ha guadagnato consenso nel Paese.
Come noto, il mercato non è solo composto da beni e servizi, ma anche da finanza ed è questa, dal lato del settore pubblico, a essere a rischio, gravando sul nostro presente e, ancor più, sul nostro futuro. Insieme agli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, agli altrettanto scarsi investimenti in generale, alle rigidità nell’uso del lavoro o all’eccessiva permissività (il lavoro nero) e alla tripla pesantezza della pubblica amministrazione pressione fiscale, costo dei servizi pubblici e burocratizzazione il vincolo più stringente è quello del debito pubblico, che si accinge a strozzare il nostro sviluppo senza che nulla si faccia. Ciò avverrà non appena i tassi dell’interesse, sotto la spinta dell’inflazione o del rischio di credito si innalzeranno superando il saggio di crescita del Pil, secondo un altro ben noto principio, sempre di derivazione matematica. Anche se riuscissimo a raggiungere l’1,5% di crescita promesso dal Governo, lo sviluppo non basterebbe per evitare il tracollo della finanza pubblica, consegnandoci mani e piedi alle decisioni dell’Unione Europea. Diverremo così una colonia politica, con qualche grado di libertà, ma pur sempre colonia. Il motivo per cui non si è dato finora avvio alla cessione del patrimonio pubblico, come fatto da altri Paesi, resta un mistero. Salvo a pensare male che, come noto, sarebbe un peccato, ma darebbe pur sempre una risposta.
Il rischio che l’Italia diventi una colonia
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