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L’unità d’Italia è stata (ed è ancora) un ininterrotto “lavori in corso”

Di fronte alla sovrabbondante valutazione dei 150 anni di unificazione del Paese, sorprende la quasi inesistenza di una riflessione sul nostro collettivo futuro. Tutti gli occhi sono rivolti al passato, con l’orgoglio di quel che abbiamo fatto o con il lutto per quel che non è stato. Di anni a venire non si parla, al massimo si prevede una trista prosecuzione dei mali presenti.
In una società narcisistica che vive di solo presente, o di malinconica nostalgia, questa rimozione del futuro è del tutto comprensibile. Ma è soprattutto a tale rimozione che dobbiamo un duplice oblio collettivo sul nostro sviluppo nazionale: anzitutto che esso è stato ed è «un processo continuato» di «lavori in corso»; e in secondo luogo che esso è stato ed è «fatto da tutti», da un insieme articolatissimo di milioni di soggetti economici e sociali.
Se non si tengono presenti questi due elementi di fondo è inevitabile che il futuro non entri nei nostri discorsi. Se infatti l’unità italiana è considerata come un evento e un’opzione una tantum, solo da ricordare e confermare, allora si mette in ombra il processo reale di evoluzione (con tutte le sue complessità e contraddizioni) dell’organismo vivente che è la società italiana. Così, se l’unità italiana è considerata come un traguardo definito e perseguito da pochi (l’élite risorgimentale, lo Stato liberale, il fascismo, eccetera) allora non si mette in ombra il fatto che essa ha coinvolto e coinvolge milioni e milioni di persone in continua soggettiva dinamica individuale e collettiva che non si vuole veder declinare.
Se anche in clima di celebrazioni del passato confermiamo che la società italiana vive in un processo continuato e soggettivamente animato, possiamo allora guardare in avanti, per scorgere cosa potremo essere nei prossimi decenni. E subito si pone il problema di capire se resterà operante anche nel futuro l’autopropulsione collettiva che ha contraddistinto gli ultimi decenni. È noto che non tutti accettano che i singoli siano causa sui; e quindi sono molti i contrari all’idea che anche i sistemi-paese possano evolversi per meccanismi vitali interni. Ma è ormai notorio che l’unità italiana, privilegiando una sua inconsapevole aspirazione ad una piena democrazia sostanziale, è andata avanti non su modelli costruiti in alto (la programmazione, la grande impresa, i settori ad alta tecnologia, l’attivismo statuale…) ma su fenomenologie diversificate di emersione di una magari disordinata vitalità di base: l’economia sommersa, la piccola impresa, il localismo (genitore e non figlio dell’opzione alta del federalismo), la patrimonializzazione mobiliare e immobiliare, la piena aderenza alla comunicazione di massa.
Non sono sicuro che tali fenomeni e processi siano destinati ad innervare anche nel futuro lo sviluppo e l’identità nazionale; ma sono sicuro che resterà in funzione il loro fattore di fondo, cioè quel conatus essendi con cui furono, anche da me, interpretati gli anni 70 (oggi va più di moda il termine generatività, più elegante e più incisivo) e che ha negli ultimi decenni caratterizzato un popolo che «sfangando la vita nel lavoro quotidiano» è uscito dalla povertà e ha costruito uno sviluppo collettivo precedentemente impensabile.
Ed è questa profonda generativa pulsione vitale che costituisce l’eredità, da accogliere magari con beneficio di inventario, che l’attuale generazione trasmette a quelle successive, non perché la conservino tale e quale, ma perché la trasformino in continua libertà di costruire l’avvenire. Sapendo, per esperienza, che essa si è declassata spesso in uno sfarinamento patologico di soggettività individuale e nelle forse conseguenti pulsioni alla regolazione talvolta violenta; ma sapendo altrettanto per esperienza che nel nostro collettivo conatus essendi restano indomabili il desiderio (che è sempre nel profondo desiderio «di essere») e la seria accettazione del conflitto (che è sempre il prodotto del libero scontro fra desideri e fra desideri e autorità della norma). Abbiamo nel passato visto in opera la loro complessa chimica, da essa proveniamo e su di essa ci giuochiamo il futuro, quale che ne sia la configurazione sistemica.

Fonte: Corriere della Sera del 22 marzo 2011

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