Il Documento di economia e finanza approvato mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri, con allegato Piano nazionale di riforme, impegna l’Italia su obiettivi di finanza pubblica che sono, a dir poco, estremamente ambiziosi. Nell’arco di quattro anni, dobbiamo arrivare al pareggio. E dobbiamo farlo malgrado la bassa crescita dell’economia e l’aumento dei tassi d’interesse.
Fra il 2010 e il 2014 la spesa pubblica al netto degli interessi dovrà scendere di di 5,5 punti di Pil. Di questi 3,2 punti stanno già nel quadro tendenziale (pagina 37 della seconda sezione del Def). Altri 2,3 punti deriveranno da ulteriori manovre sul 2013-2014 (pagina 1 della prima sezione del Def), che verosimilmente non potranno riguardare le entrate.
Una riduzione così drastica della spesa, nonché del disavanzo al netto degli interessi, non ha precedenti in Italia. In congiunzione con il tasso di crescita previsto, di poco superiore all’1%, ha pochi precedenti nel mondo sviluppato. Il 2014 è lontano e tante cose possono succedere sino ad allora. Ma non è vero che l’aggiustamento è tutto rinviato ad un futuro lontano. La riduzione della spesa parte adesso. Nel 2011 e nel 2012 la spesa al netto degli interessi dovrebbe rimanere pressoché invariata a prezzi correnti, il che ne comporta una notevole riduzione in termini reali.
Né ci si può consolare con il fatto che in gran parte i tagli sono già stati inseriti nelle tabelle approvate dal Parlamento. Quelle per ora sono scritture contabili. Anno dopo anno, mese dopo mese, i tagli entreranno nella carne viva delle amministrazioni, delle imprese fornitrici, delle persone, dell’intera economia.
Cambia dunque il significato dell’espressione “tenere i conti pubblici”. Sino ad oggi ha significato principalmente evitare eccessivi aumenti del disavanzo, a fronte della recessione. D’ora in poi significherà riduzione molto forte del disavanzo. Il grosso della manovra ricadrà sul pubblico impiego, sugli acquisti e sugli investimenti. Questi ultimi dovrebbero contrarsi sino a 27 miliardi nel 2012; erano 37 miliardi del 2009. Complessivamente, un taglio di oltre un quarto.
Si può legittimamente chiedere di cambiare la composizione dei tagli. Si possono avanzare dubbi, come fa Roberto Perotti sul Sole 24 Ore di giovedì scorso, sulla adeguatezza delle misure messe in atto per raggiungere gli obiettivi, dal momento che i tagli non sembrano accompagnati da misure capaci di incidere sui meccanismi di spesa ed è dunque ben concreto il rischio che essi si traducano in rinvii di spese necessarie – si pensi alla spese di manutenzione degli edifici pubblici o dei beni culturali -, o in debiti sommersi verso i fornitori. Ma è difficile dubitare che l’Italia abbia bisogno di questa medicina amara per iniziare a piegare la dinamica del debito pubblico. L’alternativa è una medicina molto più amara, come ci sta insegnando il caso della Grecia.
Di fronte a questa prospettiva, ci si aspetterebbero altrettanto drastiche misure per rilanciare la crescita, coerentemente con quanto ci chiede l’Unione europea nella strategia Europa 2020. Della crescita si tratta nel Piano Nazionale di Riforma, una lettura che, a prima vista, apre il cuore. L’analisi economica è eccellente. Il PNR non nasconde che il problema di fondo dell’Italia, anche nel confronto con gli altri Paesi europei, è la bassa crescita. Vi si afferma chiaramente che abbiamo un problema di bassa produttività, che perdiamo competitività e che ciò si riflette in un progressivo peggioramento delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Si individuano correttamente i “colli di bottiglia” che pesano sulle nostre imprese. Sono sostanzialmente gli stessi che il Sole 24 Ore ha individuato nell’indagine “Perché l’Italia non cresce”.
Non è un elenco breve. Ci sono, tra l’altro, la concorrenza, la semplificazione, l’efficienza dell’amministrazione, il fisco, la ricerca e il capitale umano, le infrastrutture, l’energia e l’ambiente. Luca Ricolfi (La Stampa del 13 aprile scorso) teme che i lunghi elenchi siano un’inutile litania degli imprenditori, ma anche di economisti, analisti (lui compreso), incapaci di individuare poche priorità vere per la quali vale la pena di battersi. Non cambierà opinione, ma adesso fra gli autori delle litanie dovrà elencare anche il ministero dell’Economia. Il problema è che, proseguendo nella lettura del PNR, si trova assai poco di concreto. Luigi Spaventa (la Repubblica del 15 aprile) vede il bicchiere vuoto e definisce il PNR “la cornice del nulla”.
Si può forse vedere un bicchiere non del tutto vuoto. Quantomeno adesso c’è un’analisi condivisa. Si può immaginare che almeno su quelle cose che sembrano condivise e non hanno costi – come liberalizzazioni, efficienza dell’amministrazione, semplificazione, utilizzo dei fondi europei – si elaborino proposte concrete e si metta in campo un’intensità di azione politica e mediatica non troppo dissimile da quella che in Parlamento e nei talk show vediamo dedicata a tutt’altre questioni? Per ora siamo lontani.
L’economia chiede riforme subito
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