La scorsa settimana la Camera ha approvato (grazie alla provvidenziale assenza di alcune decine di parlamentari delle opposizioni) il Documento di economia e finanza. Il Def non ha solo mutato nome, ha una nuova sostanza e corrisponde ad un cambiamento rilevante della politica europea che trova riferimento coerente, appunto, nella impostazione e nella struttura del Def.
La fase nuova che si apre, a meno di un mese di distanza delle decisioni del Consiglio europeo, si basa su di un coordinamento più stretto delle politiche economiche per la competitività e la convergenza. Ancora una volta è la politica economica, per come si esprime nella impostazione dei conti pubblici, a guidare anche i processi di integrazione istituzionale della Ue. E’ questo, al dunque, l’afflato riformatore del Def: un afflato riformatore derivato dalla nuova politica europea a cui il documento si è adeguato.
E’ la politica economica, ancora una volta, ad incidere sugli sviluppi delle stesse istituzioni ben più delle Carte dei diritti o della riorganizzazione degli ordinamenti politici, che vanno sotto il nome di nuova governance. In sostanza, l’Europa può restare un ‘nano’ dal punto di vista politico, purché vadano avanti i processi di integrazione economica derivanti dal mercato comune (che deve aprirsi ai servizi) e dalla moneta unica (che presto sara’ estesa ad altri Stati).
In questa prospettiva di una sistematica e sempre più intensa devoluzione di potere dagli Stati nazione ad una comune e sempre più politica entità europea sta anche la risposta più credibile e sostanziale alla crisi economica. Tanto che il ‘cuore’ Def è concentrato in poche pagine, all’inizio del volume, nelle quali vengono indicate le idee – forza della nuova Europa e i compiti che ne derivano per l’Italia. Un tempo si diceva che i programmi sono bandiere piantate nella testa della gente. Non richiedono molti giri di parole ma poche idee semplici e precise. Il Def non e’ reticente e traccia con grande trasparenza il perimetro della azione di governo nei prossimi anni assumendo senza infingimenti o riserve mentali i vincoli europei. E sufficiente leggere una frase-chiave del documento: “Non vi sono più spazi per ambiguità, per incertezze: la politica di rigore fiscale non è temporanea, non è una conseguenza imposta da una congiuntura economica negativa, non è imposta dalla Europa, ma è invece la politica necessaria e senza alternative per gli anni a venire”.
E’ da questa affermazione che conseguono come tanti corollari gli indirizzi centrali della politica del Governo. Anzi si potrebbe affermare, con una espressione passata di moda, le variabili indipendenti della politica del Governo che ricordo brevemente e che costituiscono la vera differenza tra il governo e le opposizioni. Eccole: 1. Non sono possibili sviluppo economico ed equilibrio politico democratico senza stabilità e solidità della finanza pubblica ; 2. L’ equilibrio si realizza tanto dal lato della finanza pubblica quanto da quello della finanza privata; 3. L’unico messaggio trainante, nell’interesse del Paese, e’ che esistono presupposti per un crescita duratura ed equa senza la stabilita’ del bilancio pubblico; 4. La crescita non si fa più con i deficit pubblici; 5. di qui l’impegno a raggiungere entro il 2014, come richiesto dalla Ue, un livello prossimo al pareggio di bilancio, da cui possa ripartire un sistematico incremento dell’avanzo primario allo scopo di ridurre il debito pubblico, il parametro che ha sostituito, nella disciplina europea, quel deficit che veniva preso a riferimento all’inizio del decennio.
E’ in questo quadro che si innestano i capisaldi del Piano nazionale di riforme con le sue priorità. Il Governo e la maggioranza saranno in grado di rispettare questi impegni nei due anni di vita della Legislatura. E’ una sicurezza che deriva da quanto hanno saputo fare sul terreno della emergenza e delle riforme nei tre anni che stanno alla spalle.
E’ giusto dare conto delle cose fatte quando sono importanti. Soprattutto è ora di fare chiarezza su alcuni luoghi comuni presenti nel dibattito politico. La considerazione riguarda la struttura del mercato del lavoro. La maggioranza e il governo sono attenti al dramma della disoccupazione giovanile e alle sue motivazioni di carattere strutturale di lungo periodo che chiamano in causa i percorsi formativi, i servizi per l’impiego e le tante distorsioni del mercato del lavoro. Ma è necessario essere altrettanto consapevoli del fatto che sui giovani gravano tutte le esigenze di flessibilità necessarie al sistema. Sulle giovani generazioni – che pure dal 2000 al 2007 avevano trovato accesso al lavoro grazie alle leggi innovative di quegli anni – è intervenuta pesantemente la crisi. Sono problemi questi che solo la crescita economica potrà risolvere adeguatamente senza dare l’illusione che bastino leggi più o meno illuminate, come spesso sembra ritenere la opposizione.
Va respinta tuttavia la rappresentazione di un mercato del lavoro devastato dalla precarietà. La grande maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici, se alle dipendenze, ha un contratto a tempo indeterminato. Lavorano a tempo determinato il 7.6 % degli uomini e l’11.9% delle donne. I cocopro sono l’1% degli uomini e l’1,9% delle donne. I prestatori occasionali sono lo 0.3 % degli uomini e lo 0,5% delle donne. Inoltre dal 2005 al 2010 secondo uno studio del Censis ci è stato un vero e proprio
L’Europa chiama e Tremonti risponde con una politica di stabilità e rigore
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