Se i cittadini fossero in grado di valutare i costi finanziari delle missioni forse ci sarebbe una presa di coscienza.
Aumentare il prezzo della benzina per poter bombardare la Libia? L’idea si è materializzata per un momento nei giorni caldi della decisione del governo italiano di rivedere l’impegno militare in libia e di consentire anche ai nostri aerei di poter sganciare qualche bomba in Libia (ma solo su bersagli militari). Era senz’altro una provocazione, attribuita al ministro Tremonti come reazione ai costi supplementari impliciti in un impegno militare che non era gradito dalla Lega di Bossi. Quest’ultima, infatti, si è subito dichiarata contraria all’ipotesi di bombardamento,non già per spirito umanitario, ma al contrario per paura di dover ospitare migliaia di profughi sospinti dalla Libia verso le nostre coste!
Ma l’idea di mettere una tassa (sulla benzina o su altro) in caso di spese originate dalla decisione di impegnarsi in una guerra in un altro paese è poi così astrusa? Certo, la cosa migliore sarebbe che non ci fossero né guerre né tasse per finanziarle, posto che a nessuno piace pagare più tasse e tanto meno fare una guerra. Tuttavia, una simile decisione era già stata presa da un governo italiano, all’epoca del nostro impegno sia in Libano che nel Kosovo, sempre sotto l’egida dell’Onu (per non parlare dell’esperienza analoga per la guerra dell’Etiopia nel 1935). D’altra parte, se un paese vuole prendere la decisione di scendere in guerra, non sarebbe male se chiamasse i suoi cittadini a pagarne le spese. Essi ne potrebbero così valutare in modo trasparente i costi finanziari, visto che quelli umani sono ormai a carico solo dei professionisti, oltre che ovviamente delle popolazioni dove si svolge la guerra.
In effetti, nel passato un forte deterrente a scendere in guerra era, tra gli altri, il contributo di vite che la popolazione del paese dichiarante era chiamata a pagare attraverso la coscrizione obbligatoria. La grande ribellione giovanile degli anni Sessanta negli Usa contro la guerra nel Vietnam originava anche dal rischio che molti giovani correvano nell’essere costretti a parteciparvi come militari di leva. Ce lo testimonia, fra le altre cose, un famoso musical poi diventato film, come “Hair”, che fece epoca, dove si narra di un povero coscritto che, alla vigilia di essere arruolato per partire per il Vietnam, prende coscienza degli orrori della guerra grazie a una banda di giovani hippie.
Oggi, con la soppressione del servizio militare obbligatorio, la guerra è affare essenzialmente di professionisti. Volontari e militari di professione che decidono di partecipare perché fa parte delle loro scelte di vita, fatte indipendentemente dall’evento bellico specifico a cui sono chiamati a partecipare. E’ così che la resistenza popolare alla guerra si è attenuata e i governi dei nostri paesi hanno potuto dichiarare guerre o interventi militari avendo come opposizione solo quella dei pacifisti. Se almeno, anche per questioni di trasparenza, la popolazione fosse costretta a mettere mano al portafoglio quando un governo decidesse di scendere in guerra, forse ci sarebbe una maggiore presa di coscienza e qualche reazione in più. E forse qualche guerra sarebbe stata evitata, con vantaggi sia sul piano umanitario che economico. Se, ad esempio, agli americani fosse stata fatta pagare una tassa per finanziare le guerre dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, decise da George W. Bush dopo l’orribile attentato dell’11 settembre 2001, oggi non avremmo questa situazione di pantano bellico in quei paesi. E non avremmo avuto neppure questa grande crisi finanziaria da cui stentiamo di uscire.
La crisi finanziaria globale affonda infatti le sue radici nella politica fiscale e monetaria estremamente espansiva avviata negli Usa dopo l’11 settembre 2001, per evitare una depressione e per finanziare le spese militari delle guerre avviate. Questa politica ha squilibrato i conti degli Usa, ossia del più grande paese industriale del mondo, e ha inondato i mercati mondiali di liquidità. Essa, alla fine, ha così favorito la nascita di nuovi strumenti finanziari e ha generato bolle speculative, la cui esplosione ha poi provocato la grande crisi globale.
Un pieno più caro per fare la guerra
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