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Un piano per il Paese

La ricetta di Draghi per evitare il declino
Tornare alla crescita. Mario Draghi ha scelto questa invocazione, scandita con un tono insolitamente accorato, per chiudere la sua ultima relazione da governatore della Banca d’Italia, in attesa di trasferirsi a Francoforte, sulla tolda di comando della Bce. Ricordando che erano le stesse parole con cui aveva aperto le sue prime “considerazioni finali”, nel 2006. Nel mezzo, in questi cinque anni, una lunga serie di sollecitazioni e suggerimenti alla politica perché prendesse la strada delle grandi riforme strutturali, scelta tanto difficile – per via della maledetta paura di perdere consenso – quanto indispensabile. Lo ha fatto anche ieri, in modo più organico e puntuto del solito, proprio mentre la classe dirigente che lo ascoltava s’interrogava su un risultato elettorale che suona come sonora sconfitta non solo per Berlusconi e il centro-destra, ma anche e soprattutto per l’intero sistema politico. Cioè per quel bipolarismo all’italiana che l’approssimarsi della fine del “berlusconismo”, cui non può che corrispondere l’esito non meno infausto dello speculare “antiberlusconismo”, mette in crisi in modo irreversibile, facendo intravedere vicina l’archiviazione di quella controversa e tormentata stagione che abbiamo chiamato Seconda Repubblica.
Ma, sia chiaro, Draghi non è caduto nella tentazione-trappola non dico di commentare il voto o di dare le pagelle al governo, ma neppure di calare le sue parole nel contesto politico fresco di significative premesse di cambiamento. Anzi, a ben vedere la relazione del governatore suona come un’autorevole conferma della politica economica degli ultimi anni, laddove essa ha scelto la via della stabilità finanziaria attraverso la riduzione della spesa pubblica e il controllo dei conti pubblici. Nessuno, quindi, è autorizzato a cogliere nelle parole di Draghi una qualunque copertura alla tesi che taluno nella maggioranza di governo sta facendo emergere, e cioè che la colpa della sconfitta elettorale starebbe nella politica di rigore fin qui realizzata.
Tesi che ha per conseguenza l’idea che si possa recuperare il consenso perduto attraverso l’incremento della spesa pubblica e la contemporanea riduzione delle tasse. Può essere, anzi è probabile, che i ceti produttivi, specie del Nord ma non solo, che hanno abbandonato il centro-destra, abbiano maturato le loro ragioni di scontento sul terreno dell’economia. Ma per via della mancata crescita – cioè quel progetto di sviluppo, nient’affatto congiunturale, che Draghi ha inutilmente chiesto nei suoi cinque anni da governatore (due con Prodi e tre con Berlusconi) – non certo per via del rigore, che semmai ha tenuto lontana dai titoli del nostro debito sovrano quella speculazione che ha attaccato Grecia, Irlanda e Portogallo. Anche perché salvaguardare i conti pubblici costituisce la premessa indispensabile per favorire il ritorno a tassi di crescita che non conosciamo più dalla fine degli Ottanta. Anzi, Draghi opportunamente ci ricorda che per conseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2014 occorre fare una manovra – per la quale giudica appropriata l’intenzione di una sua definizione già a giugno – che riduca di cinque punti in termini reali la spesa primaria corrente. Cioè non meno di 40 miliardi.
Ma come si può fare a continuare a perseguire il risanamento e nello stesso tempo a creare le condizioni per un decollo della crescita? Draghi ha dato ricette non nuove: un maggiore adeguamento della struttura produttiva, più frammentata e statica di altre, alle dinamiche competitive imposte dalla globalizzazione; interventi sulla giustizia civile e sul sistema dell’istruzione, la cui inefficienza si mangia un punto di pil ciascuno ogni anno; tassi di concorrenza più elevati, specie nei settori protetti; incremento della dotazione di infrastrutture; capacità di spesa dei fondi europei, oggi poco sfruttati; superamento del dualismo garantiti-precari nel mercato del lavoro; selettività nei tagli di spesa. Volendo sintetizzarle in un’unica definizione, le famose riforme strutturali di cui parliamo dal 1994 e che mai sono state fatte, salvo qualche piccolo e comunque del tutto insufficiente scampolo. Già, ma qui torniamo alle condizioni politiche che possono, o meno, renderle possibili. E’ evidente che se le grandi riforme non sono state fatte da nessuno – tanto da aver indotto la Confindustria a parlare di “dieci anni buttati” (ed è stata generosa, perché siamo oltre i tre lustri) – il tema non è solo Berlusconi o questo governo, ma l’intero sistema politico. Che non è stato capace di creare le condizioni perché le due coalizioni che hanno dimostrato di saper alternativamente vincere le elezioni, non fossero affette da quella doppia eterogeneità che ha impedito loro di governare.
Naturalmente, Draghi su questo punto ha glissato. Non ha mai messo i piedi nel piatto prima – nonostante gli fossero attribuite intenzioni opposte, dalla discesa in campo alla disponibilità per un ruolo di premier in un governo tecnico – tanto meno si è sognato di farlo ora, alla vigilia della sua partenza per Francoforte che per otto anni lo toglierà dall’agone nazionale. Tuttavia, un riferimento che può tornar utile nella sua relazione c’è. Si tratta del passaggio in cui giudica che oggi “quel che unisce è più forte di ciò che divide”. Che sia la chiave per aprire finalmente la porta alle riforme e con esse “tornare alla crescita”?

Fonte: Messaggero del 1 giugno 2011

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